Carlo faceva troppe domande – di Daniela Pia
Carlo ha 16 anni, da quando ne aveva 5 la curiosità si è impossessata di lui. Le domande sono state il suo pane quotidiano, le risposte venivano registrate in modo indelebile e davano la stura ad altre domande, infinite. La madre e il padre sono stati la lavagna su cui leggere le lezioni: storia e geografia, favole e leggende, scienza e archeologia, numeri e dipinti. La scuola doveva essere il campo su cui dissetare questa sete che non si placava. Sete che non lo lasciava fermo, buono come avrebbero voluto le sue maestre. Le domande continue poi si sono trasformate in elemento di disturbo. Rispondere solo a quelle sarebbe stato “rubare tempo” agli altri bambini. E a dire il vero a molte di quelle domande le maestre non sapevano rispondere con parole adatte. Quella curiosità insaziabile è diventata intollerabile, incontrollabile. Il bambino ha problemi, è ipercinetico, non ha confini, non rispetta le regole. Queste le rimostranze delle maestre, la preoccupazione che le attanagliava. Stessa cosa alla scuola media. Alle superiori lo scontro, bocciato e poi ancora bocciato: problemi comportamentali, malato, da curare. Così spesso la scuola ha affrontato ciò che non era preparata a interpretare. Carlo, quello che sfuggiva alla gestione quotidiana. Hai voglia di progetti contro la dispersione: questo non vedevi l’ ora di disperderlo. E non per cattiveria ma per istinto di conservazione: si trattava di scegliere “la classe” a discapito di chi da solo invocava per sé le energie necessarie alla metà degli studenti, questo era.
Così è cominciata la sfida: la parolaccia ripetuta, la pornografia citata, lo spinello ostentato, il ruolo di bullo incarnato con disciplina. Guardatemi urlava, sono proprio cattivo non è vero? Ditemelo, riconoscetemi. E lo riconoscemmo ma fummo incapaci di gestire la sfida: e alcuni sbottarono «ma ce li ha i genitori? È come un animale che sta nella giungla, ha problemi comportamentali». Così parlammo dal pulpito della nostra frustrazione, dalla cattedra del tempo mancato, da lavagne che elencavano poesia e metrica, frasi e numeri, bonjour e good morning. Poi convocammo consigli di classe per provvedimenti disciplinari, prima servizio alla comunità scolastica e poi inevitabili sospensioni. Ah le sospensioni! Quelle armi spuntate capaci di restituire lo spazio a noi artigiani della cattedra. Il bisturi che incide il bubbone relegandolo nel suo spazio familiare. A scontare la pena, a covare rancore. Eppure i Carlo non sono solo fuori di noi, sono un pezzo di noi, un pezzo di nostra/o figlia/o, un aspetto di tutti i nostri studenti, solo che nel non saper sfatare la leggenda rischiamo di farne l’emblema dei nostri fallimenti di adulti, la scusante alle nostre idiosincrasie, alle nostre difficoltà oggettive. La lettera scarlatta che (come nel romanzo omonimo) lava la coscienza di un sistema-scuola cui troppo si chiede e poco si riconosce. È così che la stanchezza si sta facendo abitudine, rassegnazione, azione capace solo di gestire l’emergenza per garantire la sopravvivenza. E non è un bel sentire… Forse il problema non è che Carlo fa troppe domande ma che noi non sappiamo più le risposte.
Daniela Pia