Breve storia delle pensioni in Italia

COBAS – CESP SARDEGNA

Previdenza e TFR
Breve storia delle pensioni in Italia
Il nostro sistema pensionistico si è caratterizzato, alle sue origini, come un sistema a capitalizzazione ma pubblica (1). Esso consisteva nell’accantonamento dei contributi versati dai lavoratori per costituire delle riserve. Il capitale così accumulato veniva poi investito dall’ INPS in operazioni finanziarie ed i guadagni derivanti dal rendimento degli investimenti effettuati si sommavano (o si sottraevano se avvenivano perdite) alle riserve. Dal capitale così formato, decurtate le spese correnti di gestione, veniva di volta in volta prelevata la quota necessaria ad erogare le prestazioni pensionistiche a coloro che in quel momento giungevano al termine della propria vita lavorativa.
La forma pubblica della capitalizzazione,a differenza di quella privata, comportava  che la gestione delle riserve non dovesse dare nessun profitto per il gestore, ma l’eventuale guadagno poteva essere distribuito ai pensionati, mentre nel caso ci fossero state perdite, queste venivano ripianate con fondi del bilancio pubblico complessivo.

Poiché come detto, le riserve accantonate venivano investite in attività finanziarie (titoli di stato e crediti), a causa dell’inflazione  pre e post-bellica il loro valore reale e di conseguenza quello delle pensioni, era stato progressivamente eroso: le pensioni medie reali nel ’45 valevano meno di un decimo rispetto al 1935.

I governi borghesi, per motivi di consenso politico, nel ’52 introdussero il sistema previdenziale cosiddetto a ripartizione. Questo sistema consiste nel prelevare i contributi dai lavoratori attivi e contemporaneamente con essi pagare le prestazioni ai pensionati. Il tipo di ripartizione introdotta nel ’52 è denominata ripartizione contributiva in quanto l’ammontare della pensione percepita è in diretto rapporto con l’ammontare dei contributi versati.

L’andamento favorevole della lotta di classe  portò nel ’68 all’introduzione delle pensioni a ripartizione retributiva. Tale meccanismo prevede il calcolo della pensione non in base all’ammontare dei contributi effettivamente versati, ma alla retribuzione media, di un preciso periodo della vita lavorativa (periodo di riferimento), moltiplicata per un’aliquota relativa agli anni di versamento contributivo ( es. aliquota del 2%  per 40 anni = 80% della retribuzione  media del periodo di riferimento) il periodo di riferimento era costituito nel ’68, dagli ultimi tre anni per i dipendenti privati, dall’ultimo anno per i dipendenti degli Enti locali, e addirittura dall’ultimo mese per i dipendenti pubblici. L’entità dell’aliquota era ovviamente il risultato della contrattazione ovvero dei rapporti di forza tra le classi.

Nel ’69 furono fatte altre conquiste importanti come l’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale. Questa conquista ha evidenziato in modo più tangibile la solidarietà di classe tra i lavoratori attivi e quelli in pensione, perché la crescita delle pensioni era di conseguenza collegata strettamente agli aumenti dei salari che i lavoratori attivi riescono a strappare al padronato, ovvero parte del plusvalore conquistato veniva ridistribuito a tutta la classe lavoratrice (attiva e non più attiva).

Bisogna inoltre mettere in evidenza il fatto che l’introduzione del principio della ripartizione ha permesso di estendere i benefici del sistema previdenziale ad altre categorie, come i coltivatori diretti, gli artigiani, i commercianti, realizzando una coperture quasi universale. …..

Questo sistema introdusse, però anche provvedimenti ambigui come l’intreccio fra previdenza e assistenza. La commistione di previdenza e assistenza ebbe un doppio effetto. Il primo fu quello di favorire ulteriormente le politiche  di assistenzialismo in favore del comparto autonomo.

La mancata separazione fra previdenza e assistenza permise, in secondo luogo, a partire dalla fine degli anni ’60, di finanziare con i contributi dei lavoratori, attraverso l’Inps, la ristrutturazione capitalistica:e con il ricorso alla Cassa integrazione, alla fiscalizzazione degli oneri sociali ed ai prepensionamenti.

Anche così, il capitale ha ottenuto la flessibilizzazione nell’uso della forzalavoro.

Negli anni ’80 un’intensa campagna ideologica ha preparato il terreno per gli interventi nel settore della previdenza pubblica.

Il senso generale di questa strategia è riassumibile in questo modo: diminuire la spesa sociale pubblica e allo stesso tempo creare la necessità di sostituirla con quella privata.

Finchè i lavoratori potevano contare su pensioni decenti, erogate dal sistema pubblico a ripartizione, non vi era ragione sufficiente per attivare quelle integrative private.

Il primo passo in questa direzione è stato realizzato da Giuliano Amato con la riforma del ’92. I principali provvedimenti   sono stati : blocco, per tutto il ’93 delle pensioni di anzianità, aumento progressivo dell’età pensionabile (fino a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne) , aumento del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile (portato agli ultimi quindici anni di lavoro), eliminazione dell’aggancio ai salari, aumento a 35 anni del requisito per pensioni di anzianità dei dipendenti pubblici con meno di 8 anni di contributi al 31/12/92.

Sempre Amato l’anno successivo introduce i fondi pensione. In sostanza i lavoratori dovrebbero affidare parte del loro salario differito a questi fondi pensione gestiti a capitalizzazione che trasformerebbero i risparmi prima da reddito in capitale monetario e poi in capitale fittizio. I risparmi dei lavoratori  dati ai fondi pensione vengono investiti da questi in attività finanziarie ( titoli azionari, obbligazioni e titoli pubblici ecc).

La riforma Dini del 95 ha peggiorato ulteriormente la legge Amato reintroducendo, per coloro che all’epoca avevano meno di 18 anni di anzianità lavorativa, il famigerato sistema contributivo del 1952 che era stato come detto sopra, dal ciclo delle lotte iniziato nel 1968.

Questa riforma, senza modificare le forme di finanziamento della previdenza pubblica, che resta a ripartizione (2), ha imposto che a parità di anni contributivi lavorati e di contributi versati, un lavoratore con 40 anni di contributi percepisca una pensione inferiore al 64% della media della retribuzione degli ultimi 10 anni (circa il 45% dell’ultimo stipendio), invece dell’80% assicurato dal sistema retributivo.

finanziamento a capitalizzazione privata

con questo tipo di finanziamento i contributi versati da ogni singolo lavoratore serviranno per pagare la pensione dello stesso lavoratore.

I contributi vengono investiti anno dopo anno per costruire un capitale che verrà utilizzato, direttamente o come rendita vitalizia, al momento di uscire dal mondo del lavoro.

A differenza del regime a ripartizione, basato sulla solidarietà intergenerazionale, in questo secondo regime ogni lavoratore “pensa per se”, ovvero si costruisce il proprio schema pensionistico mediante il proprio risparmio.

La capitalizzazione privata comporta tutti i rischi derivanti dai comportamenti dei mercati e costi di gestione molto alti.

Inoltre le crisi finanziarie e le svalutazioni rischiano di volatilizzare in ogni momento il capitale versato.

L’indicizzazione delle pensioni in questo caso non è possibile: l’investimento dei capitali sui mercati difficilmente permette di garantire un rendimento proporzionale all’aumento dei salari o al tasso d’inflazione.

2) finanziamento a ripartizione

Questo sistema, permette in ogni istante si utilizzare i contributi versati dai lavoratori per pagare le pensioni. Vi è quindi un trasferimento di ricchezza di una generazione, quella dei lavoratori attivi, ad un’altra, quella dei pensionati.

La ripartizione permette di indicizzare le pensioni ai salari in modo che i pensionati non  si trovino con il rischio di vedere la pensione perdere il proprio potere d’acquisto.

La riforma Amato del 92 ha tolto l’indicizzazione delle pensioni all’andamento dei salar, mentre è rimasta unicamente l’indicizzazione dei prezzi. Questo comporta, col passare del tempo, una ulteriore progressiva perdita del potere d’acquisto delle pensioni.

RIFORMA DELLE PENSIONI

A partire dal gennaio 2007 ed entro il 30 giugno, i lavoratori del settore privato dovranno scegliere se trasferire o meno il proprio TFR ai fondi pensione; per quelli del settore pubblico, il governo sta approntando un provvedimento analogo che dovrebbe entrare in vigore tra poche settimane.
Cosa è il TFR ?

E’ il trattamento di fine rapporto, la liquidazione. Nel settore pubblico si chiama Trattamento di Fine Servizio. Le aziende prelevano ogni anno dalla retribuzione dei propri dipendenti , cioè dal loro salario, il 6,9% ed al termine del rapporto di lavoro rendono al lavoratore la somma accumulata. L’ammontare del TFR viene rivalutato annualmente di un 1,5%, nonché del 75% dell’inflazione (aumento dei prezzi al consumo, il costo della vita) registrata nel corso di ciascun anno. Questa rivalutazione costituisce il “rendimento” del TFR. Ad esempio, se alla fine dell’anno l’aumento dei prezzi al consumo è stato del 2,7, il rendimento del TFR sarà, per quell’anno, del 3,52% (75% di 2,7 uguale 2,025, più la rivalutazione fissa di 1,5, dà in totale 3,52%). Quando cessa il rapporto di lavoro (perché si va in pensione o si cambia azienda) si rientra automaticamente in possesso dell’intero ammontare del TFR fino a quel momento accumulato.

Ciò avviene anche in caso di licenziamento e costituisce spesso quel piccolo capitale che permette di tirare avanti in attesa di trovare un nuovo lavoro. Il TFR assume così la funzione di un vero e proprio “ammortizzatore sociale” che il lavoratore si è pagato in anticipo, ed infatti a tale scopo venne istituito all’inizio del secolo passato.
Cosa sono i Fondi Pensione ?

Sono una categoria particolare di Fondi di Investimento, il cui capitale è formato raccogliendo il denaro accantonato per la pensione  da coloro che aderiscono al fondo I fondi Pensione investono poi questo capitale in titoli di ogni genere. Quindi guadagnano o perdono a seconda dell’andamento dei titoli comprati. Appartengono quindi alla categoria dei “capitali di rischio”. Ne esistono di due tipi: Fondi chiusi (o negoziali) e Fondi aperti. Ai Fondi Chiusi possono aderire solamente i lavoratori di una data categoria.

Ad esempio il Fondo COOP-LAVORO è riservato ai dipendenti delle Cooperative, al Fondo “ESPERO“ possono aderire solo i dipendenti della Scuola, a quello COMETA solamente i metalmeccanici, etc. Questi Fondi sono gestiti dai padroni e dai sindacati; ogni due anni alla presidenza del Fondo si alternano un rappresentante del padronato ed un dirigente sindacale.

I secondi, quelli aperti, sono costituiti da Banche, Assicurazioni, Società Finanziarie create appositamente a questo scopo, e ad essi può aderire qualsiasi persona, indipendentemente dalla categoria lavorativa a cui appartiene. Fondi di investimento esistono da anni, per ora costituiti da versamenti volontari, ma pochissimi lavoratori hanno scelto di aderirvi perché il loro rendimento è stato basso e per questo governi, padroni e sindacati hanno fatto di tutto e di più per indurre i lavoratori ad investirvi. Vere porcherie come aumentare la tassazione del TFR quando non viene investito e diminuire quella sul TFR passato ai Fondi.
Come funziona un Fondo Pensione ?
Se ci si iscrive ad un Fondo Pensione si disporrà di un conto personale su cui l’azienda, da quel momento, verserà ogni anno quel 6,9% della retribuzione lorda che costituiva il TFR.

Il TFR versato viene trasformato in ”quote del Fondo”: se si versa 100 e in quel momento ciascuna quota del Fondo vale 20, si entra in possesso di 5 quote. Se l’anno successivo le quote valgono 25, versando 100 si avranno altre 4 quote del Fondo che si aggiungeranno alle precedenti e così via anno dopo anno. Le quote hanno un valore variabile perché il denaro versato per il loro  acquisto viene immediatamente investito in titoli; da allora il valore delle quote è dato dai titoli che le compongono.. E il valore dei titoli è fissato dal variabile andamento della borsa. Le quote da cui dipenderà la nostra pensione potranno quindi salire o scendere, come se le giocassimo alla roulette.

Ma attenzione, quando il valore scende, è sempre difficile risalire al valore precedente.

Ingenuamente crediamo che se un giorno il valore scende ad esempio del 50% ed il giorno dopo risale del 50%, la quota rimane invariata, ebbene non è così: se oggi la mia quota vale 1000, perdendo il 50% va a 500 e anche se l’indomani recupera il 50% non torna a 1000 ma va a 750 (che è il 50% in più di 500); ci diranno che il mercato è in pareggio ma in realtà abbiamo perso un quarto del valore di tutto quanto abbiamo versato.

Succede lo stesso se un giorno il valore delle quote sale e poi scende della stessa percentuale: se possediamo quote per 1000 euro e si verifica un aumento del loro valore del 50%, le quote passano a 1500 euro; se il giorno dopo perdono ugualmente il 50%, non tornano ad un valore di 1000 bensì scendono a 750 (il 50% in meno di 1500). Anche in tal caso il mercato “appare” in pareggio in realtà abbiamo perso 250 euro rispetto ai 1000 iniziali. Può accadere di perdere anche in caso di salite dei titoli superiori alle discese.

Un bel giorno si ha un aumento del 60% e i nostri 1000 euro diventano 1600. Il giorno dopo si ha una discesa del 50% e i nostri 1600 euro diventano 800: abbiamo perso 200 euro!

Un altro giorno ancora si ha un ribasso del 50%, i nostri mille euro divengono 500; il giorno successivo si ha un bel rialzo del 70%: ebbene i nostri risparmi non tornano nemmeno a 1000 ma si fermano a 850 (il 70% in più di 500). Il mercato azionario ha “recuperato alla grande” ma noi abbiamo perso 150 euro!

Questo è il vecchio imbroglio della speculazione finanziaria e noi non potremo farci niente perché potremo solo assistere senza intervenire: non potremo decidere di ritirare le quote, anzi dovremo continuare a versare a lorsignori il nostro TFR. E qui non si tratta di chi vuol rischiare nel “gioco borsistico” parte di un proprio capitale, qui sono in gioco i risparmi di una vita lavorativa, quelli che soli permettono di sopravvivere.

Come sarà erogato l’assegno integrativo?

Sarà erogato solo al momento del raggiungimento dell’età pensionabile, a parità di montante l’assegno delle donne sarà comunque inferiore a quello degli uomini essendo l’aspettativa di vita femminile superiore a quella maschile. Dal momento in cui il dipendente andrà in pensione, potrà richiedere la restituzione del 50% di quanto gli spetta mentre il resto (o tutto se non si richiede il 50%) gli verrà reso con un vitalizio mensile basato sulla sua “speranza di vita”. Quanto gli spetta verrà infatti diviso per il numero di anni e mesi che teoricamente restano da vivere (ad oggi 76 anni per gli uomini e 82 per le donne); il risultato rappresenterà il mensile che verrà corrisposto (con la detrazione dei costi di gestione).

Ma attenzione, quanto spetta al lavoratore al momento in cui va in pensione è meno dell’ammontare dei suoi versamenti investiti in titoli infatti da questo ammontare sono state preventivamente detratte come accade in tutti i Fondi di Investimento, le “spese di gestione” (che servono anche a “stipendiare” i gestori del fondo. Se il rapporto di lavoro si interrompe prima del pensionamento, non si potrà ritirare quanto versato al Fondo, ma solamente quanto si aveva maturato di TFR prima dell’adesione al Fondo.
Quanto rendono i Fondi Pensione ?
Intanto occorre dire che da un po’ di tempo a questa parte, chissà perché, sempre più raramente compaiono sui mezzi di informazione dati completi ed attendibili sul rendimento dei fondi pensioni. Comunque il loro rendimento và sempre confrontato con quello, sicuro, del TFR. Partiamo da un dato certo e incontestabile: dal 1999 ad oggi il TFR ha reso il 15,8% contro il 9,2% medio dei Fondi. Secondo i dati di Mediobanca i fondi di Investimento sono stati per il 60% addirittura in perdita.

Negli anni 1999-2002 l’andamento dei Fondi fu disastroso: la media fu negativa, persero l’1,5%, con perdite record di “prestigiosi” gruppi come Fondiaria (Conto Previdenza)-19%, Fideuram (Conto Crescita) -20%, Mediolanum (Previgest) -17% Credit Agricol (Seconda Pensione) -30% !!! In quel periodo si verificò anche il crollo dei fondi pensionistici di colossi mondiali come quello dei dipendenti della Coca Cola (-23%) della General Electrics, la più grande impresa mondiale di elettricità (-23,3%), della Campbell, prima impresa al mondo dei cibi in scatola (-46%), solo per citarne alcuni.

Ma anche se esaminiamo il triennio 2002-2004, un periodo in cui il mercato finanziario è stato “tranquillo”, solamente negli investimenti sui titoli obbligazionari entrambi i tipi di Fondi sono stati positivi: dell’11, 5 i fondi chiusi e del 7,8 quelli aperti, mentre sul mercato azionario i fondi chiusi e quelli aperti hanno fatto registrare entrambi perdite del 10%. Nei cosiddetti investimenti “bilanciati” i fondi chiusi hanno reso 1,3% mentre quelli aperti hanno perso in media il 2,9%. Ebbene in quegli stessi anni il TFR ha reso l’8,7%.

Ed anche in questo triennio si sono avuti crolli dei fondi dei dipendenti di colossi come le compagnie aeree United Airlines e U.S. Airways, della Bethelem Steeel (acciaio), per non dire dei casi clamorosi della Enron e, in Italia, della Parmalat e della Comit.

Ma tutto questo ha i realtà una spiegazione se teniamo presente che cosa è il mercato azionario. In sintesi. Il mercato dei titoli non crea nuova ricchezza ma ha la unica funzione di centralizzare in poche mani la ricchezza già esistente, quella già prodotta nell’unico modo in cui si produce ricchezza: attraverso il lavoro. In altre parole, il valore dei titoli azionari non ha alcuna vera corrispondenza con i capitali reali che essi rappresentano.

Cosa è la Borsa

Le azioni sono quote del capitale di una data impresa. Si tratta di imprese che non appartengono ad un solo proprietario bensì a più proprietari che posseggono ciascuno una data parte del capitale totale della impresa; per questo si chiamano società per azioni (SpA). Ogni azione è dunque una frazione di capitale. Le azioni si vendono e si comprano in borsa ed il loro prezzo è dato dal rapporto tra domanda ed offerta.

Come per ogni altra merce quando c’è una forte domanda il prezzo (o valore) dell’azione cresce, quando c’è meno richiesta il valore scende. Se ad esempio la domanda di una azione supera l’offerta, il suo prezzo sale fino a quando la domanda non diminuisce divenendo pari all’offerta (dopo un poco che il valore è aumentato infatti la domanda diminuisce perché man mano che il prezzo delle azioni sale, cala il numero di persone disposte a comprarle).

E’ a questo punto, quando domanda ed offerta sono in equilibrio, che avviene lo scambio tra venditore e compratore e quest’ultimo entra in possesso delle azioni.

Se teniamo ben presente questo meccanismo, capiamo come il valore delle azioni non corrisponda alle parti di capitali che esse nominalmente rappresentano. Succede per esempio che delle imprese bisognose di nuovi capitali emettano azioni allo scopo di procurarseli tra i risparmiatori. Se i risparmiatori che vogliono investire i propri risparmi sono molti allora la loro domanda fa salire il valore delle azioni.

Una volta rastrellati i soldi dei risparmiatori, i capitalisti mettono in vendita le proprie azioni, aumentando in tal modo l’offerta e facendo quindi scendere il valore delle azioni che sono in possesso dei risparmiatori. Così quei risparmiatori si ritrovano nelle mani azioni che ora valgono meno di quanto le avevano pagate. La differenza tra quanto i risparmiatori avevano pagato le azioni e quanto valgono adesso costituisce  lo sporco guadagno dei veri padroni dell’impresa.

In sostanza dobbiamo tenere presente che il mercato borsistico non crea nuova ricchezza ma serve solo a centralizzare in poche mani, quelle degli industriali, dei banchieri degli speculatori la ricchezza già prodotta nell’unico modo in cui si produce ricchezza cioè con la produzione di beni materiali, con il lavoro (che nel mondo capitalista è sfruttamento del lavoro salariato).
Come avviene l’adesione a un Fondo Pensione ?

Ovvio che nessun lavoratore un po’ informato accetterebbe di affidare la propria liquidazione ai fondi pensione ed allora dalle lusinghe e le promesse, si passa all’imbroglio del meccanismo del silenzio/assenso: se i lavoratori non esprimeranno per iscritto entro il 30 giugno 2007 la volontà di lasciare in azienda il loro TFR, questo finirà automaticamente in un Fondo pensione.

Le norme vigenti e la logica prescriverebbero il contrario; evidentemente padroni governo e sindacati sperano che un bel po’ di lavoratori dimentichino di fare la dichiarazione o non ne vengano al corrente per perpetrare ai loro danni un vero e proprio furto.

Entro giugno 2007 tutti i lavoratori del settore privato, e presto anche quelli del pubblico, dovranno dunque comunicare se intendono mantenere il proprio TFR presso l’INPS (nel caso delle aziende con più di 50 dipendenti) o presso l’azienda (nel caso di aziende con meno di 50 dipendenti).

Se i lavoratori scelgono di non aderire ad un Fondo pensione, il TFR continuerà ad essere di proprietà esclusiva del lavoratore, essendo salario differito, sia che rimanga all’INPS sia che rimanga all’azienda.

Ed in entrambi i casi continueranno ad essere valide le norme della legge 297/1982, sia per quanto riguarda i meccanismi di rivalutazione annuali, sia per eventuali richieste di anticipi da parte del lavoratore, che dovrà sempre rivolgersi per averli, alla propria azienda, indipendentemente dal numero dei dipendenti di questa.

L’ergastolo dei Fondi Pensione: chi aderisce ad un fondo pensione non ne può venire più via

Attenzione, regole e statuti dei Fondi Pensione non saranno quelli che leggiamo oggi sui loro siti Internet, sui dépliants di cui ci sommergeranno, o che ci descriveranno i loro procacciatori, ma saranno quelli che tutti i Fondi dovranno adottare dal 31 marzo 2007, in base al modello di Statuto obbligatorio emanato il 13/ 11/2006 dalla COVIP, l’organismo di controllo sui Fondi Pensione. Questo Statuto al comma 6 art. 8, dice che dal 1° gennaio 2007 aderire ad un fondo diviene una scelta irrevocabile. Si potrà solo, dopo due anni, cambiare Fondo. Mentre invece fino al 31 dicembre scorso chi era iscritto ad un fondo pensione poteva uscirne (seppure con una serie di ostacoli e dopo un po’ di anni, a seconda del tipo di fondo).

Il comma 2 dell’articolo 12 dichiara poi che, in caso di licenziamento, solo dopo un anno di disoccupazione si potrà richiedere il 50% di quanto versato, mentre la totalità del TFR versato si potrà riavere soltanto dopo 4 anni, e solo se si è ancora senza lavoro.

Sappiamo che se abbiamo dei risparmi in Banca possiamo ritirarli quando vogliamo; con i Fondi pensione non si può. Sarà solamente possibile prelevare non più del 75% del capitale investito esclusivamente per “gravissimi motivi di salute”. E per prelevare un anticipo (non oltre il 50%) per l’acquisto di una casa per sé o per i figli, occorrerà aspettare che siano passati almeno otto anni dall’adesione al Fondo. Il fatto che abbiano posto queste condizioni da ergastolo dimostra come padroni, governo e sindacati siano consapevoli che i lavoratori che saranno cascati nella trappola, si accorgeranno presto della truffa; per questo chiudono la gabbia.

Massacrano le pensioni per costringerci ad aderire all’imbroglio

Da quindici anni a questa parte tutti i governi succedutisi, sia di centrodestra che di centrosinistra non hanno fatto altro che modificare in peggio i meccanismi di calcolo delle pensioni (metodo contributivo al posto del retributivo), aumentare i contributi versati dai lavoratori (0,3% solo con l’ultima finanziaria) ed innalzare le età pensionabili: già oggi si va in pensione mediamente con il 70% dell’ultimo stipendio, la pensione di anzianità sta per scomparire, quella di vecchiaia verrà tra breve portata a 67 anni (65 per le donne).

Dunque quegli stessi che massacrano le pensioni, poi ci “avvertono” che dobbiamo cedergli il nostro TFR per farci la pensione integrativa, perché le pensioni tra poco non ci basteranno per vivere. Come se oltretutto già non fosse così: su 13,5 milioni di pensionati ben 7 milioni non superano i 500 euro mensili, altri 3 milioni non arrivano a prenderne più di 750, solamente altri 3 milioni ricevono in media 1.037 euro mensili. Quelli che hanno pensioni pari ad un salario operaio (1300-1400 euro) sono appena 600.000.

Perché vogliono i nostri risparmi ?

Come abbiamo visto, da sempre le aziende tengono i nostri TFR fino a che non cessa il rapporto di lavoro e sono sempre state libere di investire quei soldi come meglio ritenevano.

Ma allora perché adesso vogliono cambiare le cose? E’ chiaro: fino ad oggi sono comunque obbligate a restituirci intatto il nostro TFR quando smettiamo di lavorare, anche se nel frattempo loro l’hanno impiegato in operazioni finanziarie che sono andate male. Facendoci aderire ai Fondi invece, se gli investimenti vanno male anche noi ci rimettiamo. In altre parole, vogliono farci condividere gli eventuali fallimenti dei mercati. Con le nuove regole insomma, la fregatura la prendiamo anche noi; se va male i padroni non sono obbligati a restituirci un bel niente.

Ma questa ansia di rastrellare i nostri risparmi si capisce solo se teniamo presente la fase che attraversa l’economia mondiale. I capitali investiti nella produzione di beni materiali danno oggi un profitto bassissimo, a causa della crescente concorrenza mondiale. Quindi la speculazione finanziaria diviene un mezzo per valorizzare, ma solamente in parte e temporaneamente, i capitali che non fruttano più abbastanza nelle attività produttive. Il mercato finanziario, la speculazione su titoli e monete, diviene lo strumento per far fruttare i capitali “inattivi” rastrellando il denaro dei piccoli risparmiatori.

Ma c’è dell’altro, e probabilmente è questo il vero obiettivo, il risultato più importante che i padroni porterebbero a casa, quello su cui più dobbiamo riflettere: d’ora in poi saremmo (illusoriamente) anche noi cointeressati al buon andamento del loro sistema economico. Ad esempio, se un Fondo Pensioni ha investito su una impresa che per “risollevarsi” deve licenziare poniamo la metà dei suoi dipendenti, allora i lavoratori di altre aziende ma che possedessero azioni di quella impresa, dovranno sperare che quei licenziamenti avvengano. E mai scenderebbero in lotta in sostegno dei propri compagni di quella azienda. Per esempio possiamo star certi che le azioni dell’Alitalia torneranno a salire appena l’azienda e i sindacati riusciranno a far ingoiare il “piano licenziamenti” ai lavoratori.

Poniamo che il nostro Fondo Pensioni investa in azioni di una impresa che costruisce armamenti. Sono tra quelle che in Borsa vanno meglio e ancor meglio quando c’è qualche guerra in giro per il mondo; dovremo allora auspicare che scoppi qualche conflitto (certo ben lontano da noi) per veder crescere i nostri risparmi.

In Africa le imprese petrolifere hanno la bella abitudine di pagare bande di mercenari per cacciare le popolazioni dalle zone dove devono costruire pozzi ed oleodotti: espropriano terreni, ammazzano chi si oppone, abbattono foreste Dovremo chiudere gli occhi su tutto questo, o auspicare che questo accada,così anche a noi andrebbero un po’ di briciole della rapina, qualora il nostro Fondo Pensioni avesse investito in queste “imprese”?. Se uno sciopero dei minatori boliviani per salari migliori facesse scendere le azioni delle Compagnie minerarie, dovremo sperare che venga represso nel sangue?

Poniamo poi che uno stato dell’America Latina chieda un prestito alla Banca Mondiale e che il Fondo Monetario vincoli questo prestito a tagli dello stato sociale, magari alla sanità. Quel paese taglia le spese sanitarie, riceve il prestito e i Buoni del suo Tesoro si rivalutano. Se il nostro bravo Fondo Pensioni avrà investito in quei Buoni i nostri risparmi si accresceranno di qualche decina di euro….. e i proletari di quel paese, se si ammalano, dovranno pagarsi le cure, sempre che possano. Potremmo continuare all’infinito; la sostanza è questa, che il vero trionfo dei padroni sarebbe la nostra cooptazione nel loro schifoso sistema.

La squallida parabola dei sindacati confederali

Anche i sindacati di stato CGIL, CISL, UIL e i fascisti dell’UGL vogliono che i lavoratori aderiscano ai Fondi Pensioni perché rappresentano il modo di rastrellare un bel po’ di denaro per il mantenimento di quelle imprese d’affari in cui si sono oramai da tempo trasformati.

Sono anni che ci lavorano ed ora sentono che l’affare sta per concludersi, che la rapina sta per andare a buon fine. Pensiamoci bene: ora che sono titolari e beneficiari dei Fondi Pensione, quando andranno alle trattative sulle “riforme della pensione” quali panni vestiranno, quelli di rappresentanti dei lavoratori o quelli di gestori di Fondi? Avranno interesse che le pensioni siano almeno sufficienti a campare o avranno interesse che siano sempre più misere in modo che i lavoratori mettano altre quote dei propri salari nei loro Fondi Pensione? Si chiama conflitto di interesse, definitiva perdita della legittimità a trattare a nome dei lavoratori.

Diciamo no alla truffa dei Fondi Pensione!

Ribelliamoci al furto del nostro TFR!
CESP SARDEGNA
CENTRO STUDI PER LA SCUOLA PUBBLICA
COBAS – SCUOLA SARDEGNA

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