TRANS SARCIDANA: Un vagabondaggio, tre ferrovie, e un dicembre tragico dell’umanità – Gian Luigi Deiana

TRANS SARCIDANA
Un vagabondaggio, tre ferrovie, e un dicembre tragico dell’umanità
Gian Luigi Deiana

Il Sarcidano non è solo un territorio interno della Sardegna: sub specie storica, e più ancora preistorica, ne è piuttosto l’insieme degli organi vitali, quelli dai quali dipende la salute e il senso di tutto il resto, tutto il corpo di questa isola piena di spiriti.
All’atto della proclamazione dell’unità d’Italia, un secolo e mezzo fa, si impose ovunque, in questa approssimativa nuova nazione, una sorta di prova di ferro: letteralmente di ferro, cioè fare qua e là la ferrovia.
E dunque la ferrovia, il nuovo leviatano della modernità, non poté eludere l’organo vitale di questa grande isola (per sè, di fatto, ben poco sabauda e forse ben poco italiana): e quindi non poté eludere il Sarcidano, poichè essa, altrimenti, non avrebbe avuto senso.
La linea ferroviaria sarcidanese presenta approssimativamente la forma di una ypsilon, Y.
Dovremmo poter immaginare la sua gamba di ferro e i suoi due bracci di ferro come segmenti di circa ottanta chilometri ciascuno: ma solo in senso virtuale.
La traduzione reale è ben più complicata.
La gamba della ferrovia di pianura, Cagliari-Mandas, si distende per circa sessanta chilometri, attraversa distese lievi, da sempre votate alla coltivazione del grano, ma incrocia anche piccole storie dell’anarchia.
Là dietro, nell’orizzonte del tempo, dormono i secoli delle economie schiavistiche classiche, e poi delle economie feudali successive ma forse più classiche ancora.
Quando da sud entri nel Sarcidano, togliti il cappello, e onora l’anarchia.
Dopo Mandas, un borgo eretto a granducato quattro secoli fa (ai tempi in cui ai bordi di un piccolo fiume slavo-germanico chiamato spreer nacque per esempio un borgo sconosciuto che poi ebbe il nome di Berlino), dopo Mandas cominciano le selve, i contrafforti e le montagne: qui la ferrovia si diparte, secondo logiche in parte orografiche e in parte cervellotiche.
Un ramo va a nord, per oltre ottanta chilometri, e finisce al borgo montano di Sòrgono.
L’altro ramo va a est, esattamente per centosessanta chilometri, e finisce all’approdo marinaro di Arbatax.
Il ramo nord, Mandas-Sorgono, attraversa di netto la Barbagia occidentale, e si può intuire la ragione di investimento su una ferrovia così azzardata: là c’era il legname necessario alle vere ferrovie italiche, quelle del nord.
Tuttavia, non so perchè, la linea si fermò proprio lì, a Sorgono, mentre secondo logica avrebbe potuto guadagnare, ormai agevolmente, la piana del Tirso e di lì centrare Macomer e poi Bosa: cioè il mare occidentale.
E invece no: la linea Macomer-Bosa, cioè cinquanta chilometri, fu realizzata. Il territorio intermedio, Mandrolisai-Barigadu, ovvero la subregione tra Sorgono e Macomer, invece no: nonostante i gangli essenziali fossero acquisiti proprio dalla società delle ferrovie. Insomma, il ramo occidentale di questa ipsilon delle ferrovie minori appare proprio come un braccio spezzato, ovvero un braccio senza avambraccio: ora non ci si fa proprio caso, a meno che tu non ci vada a piedi, con tutto il tempo necessario a fantastasticarci sopra.
Puoi farlo: hai qualche centinaia di chilometri a disposizione per fanatasticarci sopra.
La linea Mandas-Arbatax, appunto il ramo orientale, centosessanta chilometri ovvero almeno duecentomila dei tuoi passi su traversine e su ghiaia, fu invece integralmente compiuta.
Ma come linea è cervellotica oltre ogni dire.
Io a fare tutti quei centosessanta chilometri affiderei non tanto quei bravi che vantano ammirevoli camminate sul cammino di Santiago, là in Spagna: io vi affiderei Santiago stesso, Santu Jaccu nostru. Sarei anche contento di vagabondare con lui: perché i santi, se fa, non stanno lì a far perdere tempo a Dio onnipotente: i santi veri vanno in giro.
Questo ramo, il ramo orientale della trans sarcidana, attraversa con immensi tornanti tutta la Barbagia orientale: Orroli, Nurri, Biddanoatolu, Betilli, Sadali, Seui, Niala, Ussassai, Gairo, Villagrande, Arzana, Lanusei, Elini, Sella Illocci, Tortolì, e finalmente Arbatax e il mare.
Confesso ora che ho difficoltà a mettere insieme la descrizione dei luoghi al di fuori di me e di ciò che si muoveva dentro di me, e che io cercavo pazientemente di acquietare: perchè io ero in fuga.
Io ero in fuga da una guerra di cui non sono bersaglio.
Da case distrutte che non sono la mia.
Da bambini uccisi che non sono i miei.
Solo l’immagine di mia madre e mio padre, giù al camposanto, mentre incrociamo lo sguardo.
Eia, io ero in fuga: ottanta + centosessanta + cinquanta … duecentonovantachilometri di trans sarcidana, come una infinita preghiera.
Cinquecentomila traversine corrose, rotaie silenziose e pazienti, forse quattrocentomila passi, uno più uno meno, di uno che benedice la diserzione, la lotta per disertare, e l’anarchia.
Mi è capitato di ringraziare non so chi, forse il Grande Spirito, in quelle ore di mezzogiorno in cui ho trovato corbezzoli per mettere nello stomaco qualcosa, sotto di Elini o sotto di Magomadas.
E quelle immagini meravigliose là di prima mattina a Tinnura, tra la chiesa e la scuola, senza nessuno in giro: c’è gente che sa dipingere davvero in Sardegna, sui vecchi muri, o che sa dare spiritualità a ceppaie di castagno ormai apparentemente inutili e morte.
E la grande pace delle piccole greggi della Planargia, verso Sindia.
E la stupefacente curiosità dei piccoli gruppi di caprette, verso Elini.
E quel cartello di un piccolo ovile non mi ricordo dove, che diceva: “caro ladro, se lo fai per bisogno non affannarti a entrare qui di nascosto: chiedi quello che ti può servire, perchè noi e le nostre bestie siamo una famiglia, anche per te.
E non stare a cercare varchi nella rete: il cancello qui è aperto” …..

Non so perchè sto scrivendo queste cose ora.
Forse perchè sono su una nave, come capita spesso a noi sardi, e la nave non ha ancora lasciato il porto.
O forse perchè la fuga, la fuga, in questo tempo che ha sdoganato l’assassinio di massa, il terrore quotidiano, il genocidio pianificato, e la falsità come testata giornalistica globale, la fuga è in realtà quasi l’unico modo per rientrare dentro di sè: la fuga.

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