LA GENTE BIANCA: sulla percezione dello stato di guerra – di Gian Luigi Deiana

LA GENTE BIANCA: sulla percezione dello stato di guerra.

di Gian Luigi Deiana

 

Chi si muove a una guerra è necessitato alla semplificazione, in modo che restino nel suo campo visivo solo le sue proprie ragioni. 

Bastano due argomentatissimi monologhi per rendere impossibile un dialogo, dopodichè la guerra è inevitabile e la pace impossibile e la conseguenza automatica è la furia di conquista del consenso nei dintorni del campo e oltre il campo, e questa è la propaganda di guerra.

Ma giù giù, oltre la portata visiva e oltre quella tele-visiva, le proclamate ragioni non si sentono più e allora è da lì che si deve avere la pazienza di ricercare il senso, per poter risalire la china e ritrovare una strada.

La percezione di cosa sia davvero una guerra è straordinariamente stratificata, e la stratificazione di senso la più irrinunciabile, se davvero ci si dispone a capire, è sempre quella più in basso, quella più materialmente in terra.

 

Giorni fa ho attraversato la mia isola con un caro compagno per quasi duecento chilometri, da mare a mare e da monte a monte, camminavamo per dieci ore al giorno ed ovviamente non dedicavamo il tempo a parlare.

Per quasi tutto il tempo procedevamo fianco a fianco, ma per lo più ciascuno di suo, perchè viene così quando si cammina.

Vedevamo ciascuno le stesse cose, ma solo saltuariamente queste risaltavano in simultanea alla nostra attenzione.

Solo saltuariamente, eccetto “una” volta: quando risalendo una piccola valle montana la nostra strada ha fiancheggiato la recinzione di un prato smorto, abitato da un gregge di pecore afflitto e silente.

Il prato era ormai raso come una tavola insterilita e non vi prendeva forma un filo d’erba: del resto non piove da mesi e il quotidiano sofferente calpestio di centinaia di piccoli zoccoli non può che produrre un tale risultato.

Ma appena le prime bestie si sono accorte del nostro passaggio l’intero gregge si è mosso verso di noi, come una folla di mendicanti alla fame.

Ci separava la rete e ci ha unito, in qualche modo, l’impulso spontaneo all’immagine fotografica nella flebile sonorità dei belati davanti a noi.

A volte anche fare una fotografia necessita di pudore, infatti per un poco siamo stati in silenzio, per poco però. 

Perchè per una consuetudine mai dimenticata che mi porto dall’infanzia mi è venuto di parlare e le parole che mi sono venute hanno come parlato da sole, senza nemmeno la mia volontà: dicevano alle bestie che io non avevo niente per loro.

Confesso mi sono sentito improvvisamente molto triste, perchè si trattava della mia gente bianca.

Ora, fuori dall’afflizione animale e dalla tristezza umana, che poi sono “lo stesso medesimo” sentimento, mi sembra di vedere nel volgere immediato dei prossimi giorni e delle prossime settimane un panorama molto preoccupante: confidando almeno nella pioggia si può forse salvare il gregge e si può forse assicurare lo svezzamento delle agnelle, ma non si può affatto contare su una primavera di mungitura minimamente sufficiente per il pastore.

Si dovrebbe sopperire con  approvvigionamenti di foraggio e di mangime, ma non vi è più foraggio a fine inverno e l’importazione di mangimi è bloccata dal boomerang delle sanzioni di guerra.

Questa è la percezione di una guerra da parte della gente che nasce più in basso.

Procedendo verso la montagna le campagne destinate al pascolo hanno lasciato il paesaggio ai prati montani, abitati da capre, piccoli asini e mandrie brade di piccole vacche semiselvatiche: bestie certamente più favorite rispetto a greggi da mungitura chiuse in pascoli recintati ed esausti.

Ma incrociando piccoli drappelli di cavalli la visione tragica di nobili animali ridotti alle ossa ricominciava qua e là.

 

Questa è la mia gente bianca ((prendo a prestito il verso di un piccolo poema di un premio nobel, che non cito per nome poichè sono parole che appartengono a tutta l’umanità)):

“it ‘s all right, mà, I ‘m only bleeding”.

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=_CJHbfkROow

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