UNA TRAVERSATA IN BICICLETTA Civitanova – Civitavecchia: due mari, due appennini e trecento chilometri – di Gian Luigi Deiana

UNA TRAVERSATA IN BICICLETTA
Civitanova – Civitavecchia: 
due mari, due appennini e trecento chilometri
di Gian Luigi Deiana
 
Le penisole costituiscono sempre una tentazione all’attraversamento da mare a mare, e la presenza intermedia di montagne ne accentua la forza.
Quella che chiamiamo Italia è il frutto millenario di questa tentazione: venti che trasferiscono pollini e semi, migrazioni incessanti di faune, transumanze di mandrie e di greggi, e commerci e conflitti di genti umane.
 
La corsa ciclistica Tirreno-Adriatico è da decenni più una questione di costume che una gara sportiva, e una cosa bellissima da immaginare per un piccolo vagabondo in sella può essere l’indimenticabile Adriano De Zan che commenta in diretta l’attraversamento con gli elefanti guidato da Annibale il cartaginese.
Quando sei da solo per ore con la sola compagnia della tua ombra su due ruote sei padrone di immaginare qualunque cosa.
 
I tragitti stradali possibili in tutta l’Italia centrale sono numerosi, e svariano dai centottanta chilometri che separano Vasto da Formia ai circa trecentoventi che separano Ancona da Orbetello.
A me andava bene prendere come traguardo di arrivo il porto tirrenico di Civitavecchia, per una specie di legame infantile. E dunque, anche solo per associazione toponomastica, assumere come punto di partenza il porto adriatico di Civitanova, nelle marche, mi si imponeva praticamente da sè.
 
Dunque Civitanova – Civitavecchia, esattamente duecentonovantasette chilometri in una parentesi di bel tempo dopo la grande tempesta piovuta tra l’Emilia e le Marche.
E quindi tre giorni di giostra, in compagnia della propria ombra, in direzione sud-ovest, fissando il traguardo dei primi cento chilometri a Visso, sul confine tra Marche e Umbria.
I secondi cento chilometri a monte di Orte, sul confine tra Umbria e Lazio e i terzi cento chilometri a Civitavecchia, giù al porto vecchio.
 
Ma un conto è dirlo, con una carta stradale davanti e un evidenziatore in mano, e un conto è farlo, dovendosi concentrare su minuterie fondamentali: bagaglio essenziale, minimizzazione del peso, minima dotazione di emergenza… maglietta, maglione, sacco a pelo, lenti a contatto, legacci, fari da bici a pila, mappe, e affidamento all’angelo del signore.
 
La geografia ti pone davanti in successione due magnifiche barriere appenniniche, separate l’una dall’altra dal tratto mediano del Tevere: prima i monti Sibillini, che puoi guadagnare risalendo la valle del fiume Chienti.
Una volta su, puoi svalicare verso Foligno o verso Terni, ma se ti intrigano le gole spettacolari del fiume Nera ovviamente tiri verso Terni, laddove incrocerai le Marmore e la città, e così dopo una complicata successione di laghetti artificiali ti troverai sul Tevere.
Di qui dovrai salire di nuovo, su per i piani dei monti Cimini e poi verso Viterbo. 
Lì sarai già verso casa, e in qualche modo, benchè da lontano, comincerai a vedere di nuovo il mare.
 
Per quanto sia prodiga di visioni, la bicicletta non concede i tempi di trattenimento che si percepiscono come necessari. Non consente tregua perchè marcia sempre sull’imprevisto.
Così ti si sfoglia di continuo una incessante successione di luoghi che danno attimo dopo attimo una gioia e un rimpianto, perchè li ammiri mentre insieme ne fuggi via.
E così, come succede ai bambini, è facile che ti si fissino in mente frivolezze di poco conto piuttosto che vestigia riconosciute.
 
A Civitanova ho voluto fare una foto alla bici piazzandola sulla fiancata di un glorioso peschereccio in disarmo, e da quella benefica aura di salsedine sono poi propriamente partito, con la benedizione immaginaria delle generazioni di pescatori che hanno abitato nel tempo quella barca.
 
Appena esci dalla cittadina trovi l’indicazione di un santuario dedicato a santa Maria apparente: proprio così, “apparente”; questa è una attribuzione bellissima, perchè ognuno ci può trovare il significato che vuole.
Che nostra Signora quando le va appare, oppure che appare ma solo apparentemente, ecc..
Lei stessa si metterebbe un pò a ridere, però io non mi potevo fermare a vedere, e questo è stato quel giorno il mio primo rimpianto.
 
Il Chienti discende verso l’Adriatico senza grande fracasso: viene giù impregnato di argilla grigia lungo estese piane e colline sinuose.
Le coltivazioni sono ordinate e silenziose, anche perchè non si vede traccia di allevamenti, di pasture o di stalle, salvo per vecchi ruderi abbandonati.
In compenso la vecchia statale è diventata un’autostrada molto trafficata e rumorosa, fiancheggiata per chilometri da capannoni e stabilimenti industriali: niente più ermi colli e natii borghi selvaggi, benchè Recanati sia proprio là dietro.
Il peggio è che mentre persistono sul terreno moltissimi stabilimenti ormai abbandonati, rispetto a questi i nuovi stabilimenti non sono pensati in modalità sostitutiva, a riguardo del consumo di suolo, ma semplicemente ne divorano ancora di più, e così le strutture di servizio, le vie interne agli agglomerati, gli svincoli ecc.: è un harakiri incessante, incapace di pensare rimedio.
 
Quando superi Tolentino trovi una successione di piccoli borghi, laddove ciascuno di quelli di lato alla strada replica il proprio borgo madre adagiato sulla pendice della collina, in uno scenario di antica e invincibile bellezza.
Quello più invitante si chiama Càccamo, allietato da un lago artificiale nitido e invitante.
La lapide che domina il belvedere informa che l’area fu abitata da genti sicule, proprio sicule, fin dal quinto secolo prima di Cristo, e che furono queste a porre al luogo quel nome, Càccamo.
Vicende come questa possono forse spiegare come fu possibile a uno come Annibale, qualche secolo dopo, disporre di informazioni attendibili, e di una mappatura dei territori, e delle strade, addirittura a prova di elefante.
 
Il paesino di Muccia si trova su un altopiano.
Qui la strada si sdoppia all’altezza di una stazione di carburante: sei ancora nelle Marche, ma ad ovest vai a Colfiorito e Foligno, mentre a sud-ovest vai a Visso e Terni.
Facile a dirsi: io avevo addosso già ottanta chilometri di salita, leggera ma continua, e mi sarei  volentieri fermato per la notte nel motel lì a fianco: solo che era chiuso, con scritto “inagibile”, e questo è stato il mio primo incontro con la realtà dell’ultimo terremoto.
Ho preso una birra al bar, una piccola sarda ichnusa, e mi sono diretto a Visso: una ventina di chilometri ancora, con una ripida salita fino alla pieve di Macereto e una ripidissima discesa fino al paese.
 
Fino al paese? Nossignore, il paese non c’è più.
Restano curiosamente in piedi alcune costruzioni medioevali, mentre molti edifici di costruzione recente appaiono letteralmente crepati.
E’ il destino del cemento armato.
Cercando un luogo per dormire mi sono sentito un poco in colpa: non è bello fare turismo sul terremoto, e in realtà non ne avevo alcuna intenzione.
Non credevo che anche Visso fosse ridotta così, come Arquata o l’area del Tronto.
Ma ormai c’ero; un signore mi indicò un B&B al lato della baraccopoli, così potei mollare la bici e sistemarmi per la notte.
 
La baraccopoli era tenuta non solo con scrupolo, ma con una grazia particolare: una specie di spirito civico collettivo, o una specie di preghiera.
Andai a cena in paese, la vecchia Visso ormai sgomberata o sventrata.
Il chiosco dei giardinetti era animato da una diecina di giovani seduti serenamente a discutere delle loro cose.
E’ stata per me una immagine consolante, gioiosa a riguardo dei ragazzi e velata a riguardo dei loro genitori.
E’ bello che quelli che nei giorni della catastrofe erano ragazzini possano vivere oggi senza tutto il peso di quel trauma, ma credo che per la generazione dei loro adulti il trauma permanga, impossibile da cancellare.
 
La mattina dopo mi involai nel lungo canyon, con due maglioni addosso.
A Triponzo la gola del Nera si apre, e la successione di eremi e pievi segna la diversificazione delle vie: Fiastra, Cascia, Norcia, ecc..
Il sole riprese a illuminare il paesaggio, ora denso di olivi e colture.
All’incrocio per la strada di Spoleto fa mostra di sè una vecchia trebbia di legno di almeno ottanta anni fa: reca il marchio “Saima – Piacenza”.
E’ gemella di quella che avevamo in paese, negli anni cinquanta.
Poi crollò il prezzo del grano, e anche la nostra piccola trebbia di paese finì abbandonata in un angolo di strada.
Quali sono gli anni della gloria?
 
Le Marmore buttano giù il Velino sul Nera, e infatti si tratta di una vera cascata.
Se vi è stata pioggia fa un vero effetto.
Poi entri a Terni dal quartiere industriale delle acciaierie.
Una curiosità toponomastica della provincia è che i luoghi sono indicati col prefisso “vocabolo”.
Se per esempio abiti a Verdeprato il cartello indicherà “vocabolo Verdeprato”, ecc.: non capisco perchè.
 
Per entrare nel Lazio devi superare il Tevere.
Ma a questo punto devi decidere se passare per Amelia oppure per Narni.
Amelia comporta più salita, ma Narni è molto peggio: senza che tu lo sappia, se non sei in superstrada in automobile tu stai per entrare in un vero labirinto.
Infatti, laddove le vecchie statali sono diventate superstrade o autostrade, tutta la segnaletica è formulata per tale esclusiva funzione ed ignora chi invece va in trattore, a piedi o in bicicletta o comunque con mezzi interdetti alle superstrade stesse.
E lì, nel tratto di territorio ricompreso tra Narni e Orte, questo pasticcio si complica ancor più per la direttrice tripla composta dal fiume, dalla superstrada e dalla ferrovia. Questo obbliga quindi a decifrare una traiettoria assurda di sovrappassi, sottopassi e bretelle campestri e argini di lago.
A San Liberato mi ha fatto strada un signore a cavallo, altrimenti non avrei saputo come uscire da lì. 
 
Comunque il tratto di Narni è curioso: non devi attraversare il paese, devi invece percorrere in semicerchio tutta la collina a mezza costa su una stradina sbarrata ma aperta alle biciclette.
Lì incroci un grande cartello che ti informa di una cosa di cui non ti saresti mai accorto: sei nel “centro geografico dell’italia”, cioè proprio nell’ombelico della nazione.
Ovvero, sul parallelo 42, esattamente dove l’ importante acquedotto romano della via Formina incrocia il fiume Nera; solo che se ci vai rischi di dover chiamare i pompieri per tirartene fuori.
 
Dopo tali traversie superai comunque il Tevere, rimpiangendo i bei tempi dello stato pontificio.
Rifeci birra a Orte, e mi inerpicai sulla strada ortana verso Viterbo.
Era ormai quasi tardi per cercare alloggio per la notte e quindi appena raggiunto l’abitato di Bassano in Teverina tirai fuori il cellulare per cercare dove albergare.
Ma qui incappai in una duplice brutta sorpresa.
 
Il cellulare era scarico, a causa del navigatore a posizione cui ero stato costretto da Narni in poi, nell’incombenza di varcare il confine dello stato pontificio.
Quindi entrai al chiosco dei giardini del paese, frugai i miei zainetti alla ricerca del caricabatterie, e non lo trovai: infatti mi sovvenne che lo avevo dimenticato a Visso, vicino al letto dove avevo dormito la notte.
 
Come che sia la simpaticissima ragazza del bar mi trovò l’alloggio.
Poi frugò tra i suoi accessori di cellulare, ma invano.
Dunque mi indirizzò al ristorante lì vicino, denominato “La Fenice”, che presi come un nome augurale.
 
Avevo assoluta necessità di chiamare a casa poichè uno dei problemi infernali del cellulare consiste nel fatto che se appena non prende, o se è scarico, quelli di casa pensano subito alle varie ipotesi di catastrofe.
Ma per buona sorte “La Fenice” mi si presentò nelle sembianze della simpaticissima ragazza che serviva al banco, di nome Camilla.
Le chiesi il favore di digitarmi sul suo telefono il numero di casa mia, data la mia ansia; così potei telefonare e sistemare la cosa, ma…
 
Mentre chiudevo la conversazione sentii una voce meravigliata alle mie spalle: “Gian Luigi…”; era rivolta a me ed era stata pronunciata da una persona che riconobbi subito in preda all’incredulità: era un mio paesano, e per di più un caro amico.
Era sorpreso quanto me, tanto più che sebbene abitasse lì vicino, aggiunse, non pensava di passare in quel locale proprio quella sera.
Disse che poi aveva invece deciso di venire lì perchè tanto ci lavorava la figlia; “ah, e chi è tua figlia?”; “è lei, Camilla”.
 
In preda allo stupore abbiamo richiamato mia moglie.
Io designo queste situazioni evocando l’Angelo del Signore, almeno per ridere.
Mia moglie intanto diceva a Sandro che quando combino pasticci mi salvo sempre di culo.
Come figura letteraria è comunque meglio la mia.
 
La mattina filai dritto verso Viterbo.
La strada ortana è in condizioni pietose, però il paesaggio è magnifico e soprattutto ho avuto occasione, presso un minuscolo abitato indicato come frazione di Soriano, di vedere per la prima volta in oltre duecento chilometri una mandria di vacche.
Ormai è davvero difficile sentire greggi belar, muggire armenti, anche se gli augelli contenti svolazzano ancora per lo libero ciel: ma fino a quando? 
 
Su quella stessa rete di recinzione campeggiava un grande lenzuolo arcobaleno nel quale l’amministrazione comunale di Soriano nel Cimino si pronunciava per la pace.
Credo che le greggi e gli armenti, e gli augelli ed io, siamo totalmente concordi con tale dichiarazione.
 
Con questo animo di lì a poco mi sono ritrovato a Viterbo, ho ripercorso qualche vicolo dei tempi di scuola e rivisitato quella piazza e poi quella stazione e soprattutto il mio compagno di allora e di sempre, con una Ichnusa come testimone.
Poi mi sono involato verso il mare, ancora molto distante.
 
Tutto il territorio tra Vetralla e Monteromano mi è familiare fin da bambino.
Quindi l’ho attraversato con una specie di pace materna tutto intorno.
Mentre la temperatura si alzava, sui bordi della strada scodinzolavano ogni tanto grandi ragani verdi: mai visti in tale numero, belli e sconcertanti come non mai.
 
Alle quattro del pomeriggio ero a Civitavecchia giù al vecchio porto dei pescherecci.
Mi feci quelle banchine camminando con lentezza, con la bici per mano come davanti a casa.
Non so contare il numero di approdi di prima mattina e il numero di imbarchi all’ora del tramonto, che  mi hanno visto correre o aspettare di salire, tra quelle pietre e la nave, sempre con l’angelo del signore alle spalle. 
 
E anche ora, come ogni altra volta, era giunto il momento di tornare a casa.

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