Riforma delle pensioni – ovvero dal lavoro alla tomba – di Angelo Cani
Breve storia delle pensioni in Italia.
Fin dalla sua origine, in Italia, il sistema pensionistico si caratterizzò come un sistema a capitalizzazione pubblica (1). con questo sistema i contributi, versati dai lavoratori, venivano accantonati e poi utilizzati per costituire delle riserve. Il capitale così accumulato veniva poi investito dall’ INPS in operazioni finanziarie ed i guadagni derivanti dal rendimento degli investimenti effettuati si sommavano (o si sottraevano se avvenivano perdite) alle riserve. Dal capitale così formato, decurtate le spese correnti di gestione, veniva di volta in volta prelevata la quota necessaria ad erogare le prestazioni pensionistiche a coloro che in quel momento giungevano al termine della propria vita lavorativa.
La forma pubblica della capitalizzazione,a differenza di quella privata, comportava che la gestione delle riserve non dovesse dare nessun profitto per il gestore, ma l’eventuale guadagno poteva essere distribuito ai pensionati, mentre nel caso ci fossero state perdite, queste venivano ripianate con fondi del bilancio pubblico complessivo. Poiché come detto, le riserve accantonate venivano investite in attività finanziarie (titoli di stato e crediti), a causa dell’inflazione pre e post-bellica il loro valore reale e di conseguenza quello delle pensioni, era stato progressivamente eroso: le pensioni medie reali nel ’45 valevano meno di un decimo rispetto alle pensioni percepite nel 1935.
I governi democristiani, per motivi di consenso politico, nel ’52 introdussero il sistema previdenziale cosiddetto a ripartizione. Questo sistema consisteva nel prelevare i contributi dai lavoratori attivi e contemporaneamente con essi pagare le prestazioni ai pensionati. Il tipo di ripartizione introdotta nel ’52 era denominata ripartizione contributiva in quanto l’ammontare della pensione percepita era in diretto rapporto con l’ammontare dei contributi versati.
L’andamento favorevole delle lotte dei lavoratori portò nel ’68 all’introduzione delle pensioni a ripartizione retributiva. Tale meccanismo prevedeva il calcolo della pensione non in base all’ammontare dei contributi effettivamente versati, ma alla retribuzione media, di un preciso periodo della vita lavorativa (periodo di riferimento), moltiplicata per un’aliquota relativa agli anni di versamento contributivo ( es. aliquota del 2% per 40 anni = 80% della retribuzione media del periodo di riferimento) il periodo di riferimento era costituito nel ’68, dagli ultimi tre anni per i dipendenti privati, dall’ultimo anno per i dipendenti degli Enti locali, e addirittura dall’ultimo mese per i dipendenti pubblici. L’entità dell’aliquota era ovviamente il risultato della contrattazione ovvero dei rapporti di forza tra le classi.
Nel ’69 furono fatte altre conquiste importanti come l’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale. Questa conquista aveva evidenziato in modo più tangibile la solidarietà di classe tra i lavoratori attivi e quelli in pensione, perché la crescita delle pensioni era di conseguenza collegata strettamente agli aumenti dei salari che i lavoratori attivi riuscivano a strappare al padronato, ovvero parte del plusvalore conquistato veniva ridistribuito a tutta la classe lavoratrice (attiva e non più attiva). Bisogna inoltre mettere in evidenza il fatto che l’introduzione del principio della ripartizione permise di estendere i benefici del sistema previdenziale ad altre categorie, come i coltivatori diretti, gli artigiani, i commercianti, realizzando una coperture quasi universale.
Questo sistema introdusse, però anche provvedimenti ambigui come l’intreccio fra previdenza e assistenza. La commistione di previdenza e assistenza ebbe un doppio effetto: favorire ulteriormente le politiche di assistenzialismo in favore del comparto autonomo e finanziare, a partire dalla fine degli anni ‘60, con contributi dei lavoratori, attraverso l’Inps, la ristrutturazione capitalistica.
Negli anni ’80 i giornali e tutti i mezzi di informazione hanno dato vita ad un’intensa campagna ideologica per preparare il terreno per gli interventi nel settore della previdenza pubblica.
Il senso generale di questa strategia è riassumibile in questo modo: diminuire la spesa sociale pubblica e allo stesso tempo creare la necessità di sostituirla con quella privata.
Finchè i lavoratori potevano contare su pensioni decenti, erogate dal sistema pubblico a ripartizione, non vi era ragione sufficiente per attivare quelle integrative private.
Riforma Amato – Dini
Il primo passo in questa direzione è stato realizzato da Giuliano Amato con la riforma del ’92. I principali provvedimenti sono stati : blocco, per tutto il ’93 delle pensioni di anzianità, aumento progressivo dell’età pensionabile (fino a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne) , aumento del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile (portato agli ultimi quindici anni di lavoro), eliminazione dell’aggancio ai salari, aumento a 35 anni del requisito per pensioni di anzianità dei dipendenti pubblici con meno di 8 anni di contributi al 31/12/92.
Sempre Amato l’anno successivo introdusse i fondi pensione. In sostanza i lavoratori dovrebbero affidare parte del loro salario differito a questi fondi pensione gestiti a capitalizzazione che trasformerebbero i risparmi prima da reddito in capitale monetario e poi in capitale fittizio. I risparmi dei lavoratori dati ai fondi pensione vengono investiti da questi in attività finanziarie ( titoli azionari, obbligazioni e titoli pubblici ecc).
La riforma Dini del 95 ha peggiorato ulteriormente la legge Amato reintroducendo, per coloro che all’epoca avevano meno di 18 anni di anzianità lavorativa, il famigerato sistema contributivo del 1952 che era stato come detto sopra, affossato dal ciclo di lotte iniziato nel 1968. Questa riforma, senza modificare le forme di finanziamento della previdenza pubblica, che resta a ripartizione (2), ha imposto che a parità di anni contributivi lavorati e di contributi versati, un lavoratore con 40 anni di contributi percepisca una pensione inferiore al 64% della media della retribuzione degli ultimi 10 anni (circa il 45% dell’ultimo stipendio), invece dell’ 80% assicurato dal sistema retributivo.
Riforma Prodi
La Riforma Prodi del 2007 modifica alcuni punti della riforma Dini inasprendo i requisiti per le pensioni di anzianità.
Sin dalla campagna elettorale era chiaro che il suo obiettivo, parallelamente ai governi europei, era quello di portare l’età pensionabile fra i 65 e i 67 anni. Prodi per riuscire, dove aveva fallito, l’anno prima, Berlusconi, aveva bisogno però della complicità dei sindacati. Non aveva dovuto insistere molto per ottenere la loro disponibilità. In un primo momento i sindacati recitando, molto bene, la parte loro assegnata, cioè quella di difensori degli interessi dei lavoratori avevano indetto a metà giugno, contro l’impoverimento delle condizioni di vita dei pensionati, numerose e partecipate manifestazioni in molte città italiane. Ma Poche settimane dopo i tre segretari di CGIL, CISL e UIL avevano, senza batter ciglio, avallato la distruzione del sistema pensionistico italiano proposto dal governo Prodi. Il capo del governo furbescamente, per evitare proteste di massa, fece approvare il taglio alle pensioni, dal Parlamento, a fine agosto quando la stragrande maggioranza dei lavoratori si trovava ancora in ferie.
Una delle novità, approvate dal governo di centro sinistra, riguarda l’introduzione delle quote che aumentano gradualmente l’età pensionabile. Le quote sono ottenute dalla somma dell’età anagrafica più l’anzianità contributiva. Nel 2011 la Quota sarà 96,minimo 60 anni di età e 36 di anzianità, per salire nel 2013 a quota 97 risultante da 61 anni di età e 36 di lavoro.
Brunetta
Dal 1 gennaio 2010 Brunetta ha introdotto una norma contenuta nella riforma Dini e non ancora applicata. Il ministro, che conosce bene tale norma, è andato in pensione, il 31 dicembre, un giorno prima della sua entrata in vigore.
Tale provvedimento diminuisce i coefficienti di trasformazione che ridurranno, ulteriormente, in futuro, i miseri importi pensionistici, ed eleva gradualmente l’età pensionabile, fino a 65 anni, anche per le donne.
I coefficienti di trasformazione sono una serie di numerini, che servono, appunto, per calcolare la pensione lorda annua a partire dai contributi versati. E infine, l’ultima trovata, è stata quella di mettere le pensioni in rapporto con la speranza di vita. Ciò significa che L’aumento della vita media verrà pagata dai lavoratori con delle pensioni inferiori. Tutto questo, a detta dei governanti, serve per aiutare le nuove generazioni di lavoratori. Ma come sappiamo le bugie anno le gambe corte, infatti gli ultimi calcoli degli esperti hanno dimostrato che un neo assunto perderà mediamente circa 5000 euro.
Da questa tabella si evince che chi sarà costretto ad andare in pensione più tardi prenderà di meno:
valori dei coefficienti di trasformazione
età vecchi nuovi perc
57 4,720 4,419 -6.3%
58 4,860 4,538 -6.6%
59 5,006 4,664 -6.8%
60 5,163 4,798 -7.1%
61 5,334 4,940 -7.4%
62 5,510 5,093 -7.6%
63 5,706 5,257 -7.9%
64 5,911 5,432 -8.1%
65 6,136 5,620 -8.4%
avete letto bene. Questi nuovi coefficienti incidono pesantemente sulla pensione annua dei lavoratori: la diminuzione dell’importo annuale si stima sia del 9%.-
Fornero
Nel giorno dell’insediamento del governo Monti la Fornero, tra le lacrime, affermò ”non useremo l’accetta”, ma l’anticipazione per tutti i lavoratori dell’applicazione del criterio contributivo, il drastico innalzamento dell’età pensionabile, per donne e uomini, a 67 anni, i 390.000 lavoratori “esodati”, cioè lavoratori senza salario, senza pensione e senza ammortizzatori sociali, dimostrano l’esatto contrario.
Da quanto detto si evince che sia i governi di centro sinistra che di centro destra negli ultimi vent’anni hanno, con determinazione, tagliato le misere pensioni dei lavoratori. Lascio a voi l’ardua conclusione di chi abbia servito meglio il potere.
Previdenza privata e ruolo dei sindacati
Queste scelte, bisogna ricordare sempre, sono il risultato delle strategie concertative dei sindacati confederali fatte in nome del supremo bene dell’economia nazionale ( cioè delle banche e del grande capitale) e, sempre in nome del supremo bene nazionale, si accettano tutti i vincoli delle compatibilità economiche in cambio di un riconoscimento istituzionale del proprio ruolo, come unici rappresentanti dei lavoratori. La riduzione delle pensioni secondo il governo, la confindustria e i sindacati concertativi, dovrebbe indurre i lavoratori ad aderire ai fondi pensione. Soprattutto in una fase in cui i capitali investiti nella produzione di beni materiali danno un profitto bassissimo, a causa della crisi di sovrapproduzione e della crescente concorrenza mondiale. Quindi la speculazione finanziaria diviene un mezzo per valorizzare, ma solamente in parte e temporaneamente, i capitali che non fruttano più abbastanza nelle attività produttive. Il mercato finanziario, la speculazione su titoli e monete, diviene lo strumento per far fruttare i capitali “inattivi” rastrellando il denaro dei piccoli risparmiatori. Ma c’è dell’altro, e probabilmente è questo il vero obiettivo, il risultato più importante che il capitale porterebbe a casa, quello su cui più dobbiamo riflettere: d’ora in poi saremo (illusoriamente) anche noi cointeressati al buon andamento del loro sistema economico. Ad esempio, se un Fondo Pensioni ha investito su una impresa che per “risollevarsi” deve licenziare poniamo la metà dei suoi dipendenti, allora i lavoratori di altre aziende ma che possedessero azioni di quella impresa, dovranno sperare che quei licenziamenti avvengano e mai scenderebbero in lotta in sostegno dei propri compagni di quella azienda.
I sindacati titolari e beneficiari dei Fondi Pensione, quando andranno alle trattative sulla “riforma delle pensioni” quali panni vestiranno? Quelli di rappresentanti dei lavoratori o quelli di gestori di Fondi? Avranno interesse che le pensioni siano almeno sufficienti a campare o avranno interesse che siano sempre più misere in modo che i lavoratori mettano altre quote dei propri salari nei loro Fondi Pensione? Tutto ciò si chiama conflitto di interesse, perdita di legittimità a trattare a nome dei lavoratori.
Che fare?
Che fare in questa fase? Il nostro ruolo non deve essere solo di denuncia, ma anche propositivo. Per affrontare correttamente la battaglia in difesa delle pensioni in grado di ottenere dei risultati significativi occorre: difendere il sistema previdenziale pubblico a ripartizione retributiva realizzabile mediante separazione reale della previdenza dall’assistenza; ripristinare l’aggancio delle pensioni agli stipendi calcolati sugli ultimi sei mesi contributivi;
abbassare il numero degli anni necessari per la pensione minima.
Siamo consapevoli che una simile battaglia può essere sostenuta solo da un fronte ampio e cosciente che unisca lavoratori, giovani, disoccupati e pensionati.
1. finanziamento a capitalizzazione
con questo tipo di finanziamento i contributi versati da ogni singolo lavoratore serviranno per pagare la pensione dello stesso lavoratore.
I contributi vengono investiti anno dopo anno per costruire un capitale che verrà utilizzato, direttamente o come rendita vitalizia, al momento di uscire dal mondo del lavoro.
A differenza del regime a ripartizione, basato sulla solidarietà intergenerazionale, in questo secondo regime ogni lavoratore “pensa per se ”, ovvero si costruisce il proprio schema pensionistico mediante il proprio risparmio.
La capitalizzazione privata comporta tutti i rischi derivanti dai comportamenti dei mercati e costi di gestione molto alti.
Inoltre le crisi finanziarie e le svalutazioni rischiano di volatilizzare in ogni momento il capitale versato.
L’indicizzazione delle pensioni in questo caso non è possibile: l’investimento dei capitali sui mercati difficilmente permette di garantire un rendimento proporzionale all’aumento dei salari o al tasso d’inflazione.
2) finanziamento a ripartizione
Questo sistema, permette in ogni istante di utilizzare i contributi versati dai lavoratori per pagare le pensioni. Vi è quindi un trasferimento di ricchezza di una generazione, quella dei lavoratori attivi, ad un’altra, quella dei pensionati.
La ripartizione permette di indicizzare le pensioni ai salari in modo che i pensionati non si trovino con il rischio di vedere la pensione perdere il proprio potere d’acquisto.
La riforma Amato del 92 ha tolto l’indicizzazione delle pensioni all’andamento dei salari, mentre è rimasta unicamente l’indicizzazione dei prezzi. Questo comporta, col passare del tempo, una ulteriore progressiva perdita del potere d’acquisto delle pensioni.