“NON TENZO MERES DE MI CUMANDARE” (il primo comandamento nella morale di mia madre)

“NON HO PADRONI CHE MI POSSANO COMANDARE” è un’affermazione che mia madre faceva quando lo riteneva necessario e sempre con una certa solennità; naturalmente il più delle volte era una dichiarazione rivolta a mio padre, ma certo non solo a lui: corrispondeva infatti a quello che il filosofo kant chiamava “postulato della morale”, nel senso che un postulato non è una semplice esclamazione riferita a una specifica situazione, ma vale per la sua assolutezza e per la sua universalità;

questa proposizione, che non mi sovveniva più da tanto tempo, mi è tornata in mente qualche sera fa e precisamente durante una manifestazione dell’otto marzo; stavo seguendo con attenzione le riflessioni di un intellettuale sardo molto sensibile e anche molto noto, e che ho sempre apprezzato per l’originalità e la chiarezza, sulla cui esposizione ad un certo punto mi sono tuttavia irrigidito; trattava dei destini già scritti imposti alla donna sarda da una lunga e rigida tradizione: madre o vergine, negata alla sensibilità erotica e nobilitata come padrona della casa ecc.;

mi è venuta in mente la figura femminile del film “padre padrone”, opera che ho sempre considerato con fastidio in quanto gran parte della mia vita è stata una vita pastorale in una famiglia di pastori e in un paese di pastorizia, e la tipizzazione dei ruoli su cui era strutturata quell’opera e sui cui si era impresso nella diffusione letteraria e cinematografica un luogo comune che considero radicalmente falso (il padre padrone, così come anni prima il sardo bandito o il fante sassarino che non teme la morte ecc.) non mi corrispondeva affatto;

ed è stato lì in quella sala che annuiva che mi è sovvenuto il primo postulato della morale di mia madre, il postulato che nemmeno il vecchio kant avrebbe disdegnato per la sua grande filosofia: “non ci sono padroni che mi possano comandare”; e così, preso da questo pensiero, ha preso forma nel mio attento ascolto una specie di controcanto rispetto a quello espresso al microfono sulla dignità della donna;

in sardo non esiste la parola “donna”, che alla sua origine significa “domina” e quindi signora e padrona; in sardo si dice “femmina”, e nelle specificazioni del caso sennora o mere; già nella dominanza della parola d’uso generico “donna” vi è nella lingua italiana una contraffazione; ma il nodo concettuale più rigido e complicato sta (come spiega appunto il grande kant) nel rapporto tra libertà e dovere; quando mia madre affermava il suo principio di condotta, “non ho padroni”, si riferiva al fatto che lei esigeva di essere radicalmente e assolutamente “libera” in prima istanza nell’assolvimento di quello che lei riteneva “dovere”;

la dominanza maschile, in realtà, è infatti un retaggio antropologico e storico ed è consistita nella prevalenza maschile non tanto sulla “propria” donna, quanto sulla fissazione dei ruoli sociali (e quindi dei doveri socialmente riconosciuti, in primo luogo a distinzione sessuale): ed qui che si gioca oggi la necessità della fine di questa prevalenza e la necessità di una riscrittura femminile della mappa dei doveri;

e tuttavia, assunto sulla propria vita il dovere (in primis, crescere i propri figli educandoli alla libertà e al rispetto), non è affatto vero che la donna sarda è stata nei secoli psichicamente inabile a pensarsi come individualità libera: lo possono anche pensare i fratelli taviani o la cinematografia coloniale che è stato etnicamente così, ma non lo pensa affatto né mia madre né il vecchio kant;

e così ieri sera ne ho parlato al bar con gli amici, ed uno tra questi ha ricordato che questa frase scolpita nelle menti era pronunciata anche dalla madre di lui, quando essa lo riteneva necessario; ma che lei ne aggiungeva un importantissimo corollario che io invece non conoscevo: “sos meres meos funti tottus in presone”, ovvero:”non ho padroni che mi possano comandare: i miei padroni sono tutti in prigione”.

Gian Luigi Deiana

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