PALLIDA MADRE (berlino, inquietudine di una figlia adottiva)

il titolo cui affido queste righe è preso da una poesia di bertolt brecht, che poi è diventato anche il titolo di un film importante; qui io intendo soltanto lasciare per me una traccia di un breve soggiorno a berlino, a metà gennaio: solo le mie impressioni, perché a suo modo questa città impressiona; solo la mia motivazione a percorrerla, perché un luogo senza motivazione non è un luogo; solo la sua identità, perché è questa la condizione più enigmatica di quella che da quasi quattro secoli è la capitale tedesca; e infine la ragione sottesa di una inquietudine irrisolta, il rapporto tra la piccola berlino e la grande germania;

andai a berlino per la prima volta quasi trent’anni fa, e oltre a fissarmi i punti fondamentali per l’orientamento est-ovest (alexanderplatz e la porta di brandeburgo) presi da qualche parte una cartolina che riportava la presa della città da parte dell’armata rossa: due soldati sovietici che fissavano la bandiera rossa sul torrione del reichstag; era bello per me, io e gabri avevamo i bambini piccoli e quella cartolina è ancora al suo chiodo in casa nostra;

la foto fu scattata il 30 aprile del 1945; qui non mi importa l’anno, mi importa il giorno, che dovrebbe essere di piena primavera: dovunque, ma non a berlino, dove il cielo più che grigio era assente e la strada, ripresa da là sopra, mostrava solo macerie e un tram morto sulla rotaia; il cielo, il cielo sopra berlino;

il meteo di berlino segna di norma tutto l’opposto della forma “sereno-variabile”, lo si direbbe piuttosto inquieto fisso, laddove la previsione del tempo e la sua postvisione, almeno nella percezione quotidiana, restano indefinitamente la stessa cosa; è questa assenza del cielo che mi ha ospitato in questi freddi giorni di gennaio, che con l’ostinazione di una specie di pellegrinaggio, o di una gratitudine che non c’è ragione di spiegare, ho dedicato a rosa luxemburg e alla rivoluzione spartachista, per come lei e i suoi compagni vissero la rivolta e il tradimento cento anni fa, alla fine della grande guerra, sulle barricate a berlino;

nell’assenza percettiva del cielo, cui noi di quaggiù non siamo abituati, è difficile costruirsi l’immagine di un luogo senza amplificare all’estremo le proprie immediate impressioni: è per questo che di fatto un “luogo” non è mai una entità oggettiva, quanto piuttosto una costruzione mentale che momento per momento allinea le impressioni con le indicazioni sul terreno: direzioni, nomi delle vie, ubicazioni ecc.;

tanto più questo è vero a berlino, un “luogo” che fatica talmente tanto ad essere tale, un “luogo”, da trovarsi costretto più di ogni altro ad affidare la propria individuazione ad un artificio direzionale, la demarcazione est-ovest e l’arteria stradale che la taglia in due; dunque, se voi per un attimo trascurate le anse del fiume e tirate da nord a sud un muro (un “muro”) su quello che in antico era il guado di brandeburgo, avete di per sé una berlino est e una berlino ovest, ben prima che ci pensasse la guerra fredda o walter ulbricht; e se poi tirate una via larghissima e diritta dalla pianura sconfinata dell’est alla pianura sconfinata dell’ovest, magari chiamandola viale dei tigli per rasserenarvi un poco, ne ricavate la parvenza un territorio abitabile, e persino abitato: la parvenza, appunto;

non vi è esagerazione in questa descrizione, se si trascurano le enfasi sul “muro”, sul fiume spreer, sul check point charlie, su unter den linden o sulle più o meno recenti attrazioni con cui ostinatamente si cerca di dare a berlino la parvenza di una città: non c’è niente da fare, berlino è un luogo senza passato, oltre che senza cielo; è da chiedersi chi e perché ne abbia voluto fare il luogo di identità della germania, la sua certificazione di storia e il suo luogo di destino;

berlino non è roma, o atene, o gerusalemme, o istanbul, che esistono da quasi tremila anni; non è nemmeno londra o parigi o milano, che esistono da duemila, e nemmeno madrid o budapest o praga che esistono almeno da mille; tanto meno è amburgo, o treviri, o magonza, tanto per restare sulla storia tedesca; ancora quattro secoli fa, quando la riforma luterana cambiò la storia dell’intera germania, praticamente non esisteva, e conservò ancora a lungo la dimensione urbana di posti come bosa, vetralla o montepulciano; entrò in scena di soppiatto, con l’esito del primo grande conflitto continentale europeo, la guerra dei trent’anni, e con la rivelazione politica e militare della prussia; fu allora, poco più che trecento anni fa, che l’intera germania cambiò il suo baricentro e che questa piccola figlia fino allora sconosciuta e negletta fu investita del rango di capitale: una specie di figlia adottiva, e sventurata a suo modo; germania, pallida madre;

berlino, come tutti gli agglomerati edificati su luoghi di guado, nasce per necessità come villaggio bicentrico e come passo conteso: slavo ad est e brandeburghese ad ovest rispetto al fiume, molti secoli prima di federico il grande, di bismack o di honecker; col tempo, se la germanizzazione dissolse con la forza e con l’ostilità etnica la caratterizzazione slava, non dissolse la vaghezza territoriale, non poté istituire d’ufficio la linea dell’orizzonte, e fu portata a sostituire tutto questo, cioè il dimensionamento naturale di ogni possibile luogo, con l’esasperazione dell’artificio urbanistico: ciò che sembra esserne derivato alla fine, per l’imprevedibilità delle vicende umane, è l’enigmatica successione di grandiosità e di macerie, di mercati e cimiteri, di polverizzazione e ricostruzione: grandi edifici, immensi viali, bunker deliranti, vuoti paurosi, silenzi senza fine, e pressoché ovunque gente aperta e gentile che non sorride, o che non trova motivo per farlo;

disporsi a berlino, o a comprenderne in qualche modo l’aura e viverne l’alba e il tramonto (o l’assenza di alba e di tramonto) impone di darsi in qualche modo una traccia; la mia è stata in qualche modo prefissata nella linea essenziale, da ovest a est: avevo deciso di essere sabato tredici gennaio alla periferia ovest, alla fine del sobborgo moabit, per un convegno dedicato a rosa luxemburg e karl liebknecht; e di andare martedi quindici , giorno del centenario, all’estrema periferia est, al cimitero di friedrichshof, in capo all’interminabile frankfurter allee; le vecchie conoscenze topografiche della porta di brandeburgo e di alexanderplatz mi apparivano ormai reminiscenze infantili, a fronte di tutti quei chilometri che mi disponevo a fare a piedi, su fermate diritte e quasi obbligate quali il museo dedicato a willi brandt in unter den linden, la casa di karl liebknecht in rosa luxemburg platz o il quartiere della stasi in magdalenenstrasse; confesso che ho fatto il ritorno a moabit in tram, e che quando la signora che era alla guida mi svegliò con un modo molto gentile era ormai notte; me ne andai qua e là tra i negozietti aperti, che offrivano invariabilmente internet, birra, frutta, e una giusta disposizione a fare chiasso e scherzetti: tutti invariabilmente turchi, siriani, pakistani, ecc.: la vera periferia umana della città, senza la quale berlino, secondo me, oggi avrebbe di nuovo i giorni contati;

vi è stato davvero un grande convegno sullo spartachismo e sulle crisi attuali, penso realisticamente almeno tremila persone per la durata di tutto il giorno; curiosamente la relazione principale è stata svolta da un bravo intellettuale italiano, vladimiro giacchè, anche se di italiani in tutto quel pubblico credo di esservi stato solo io; le cuffie per la traduzione, d’altronde, erano disponibili solo in inglese, in spagnolo e in turco, e infatti vi era una forte presenza turca, ma anche curda e siriana;

le tombe di rosa e karl si trovano nel memoriale dei socialisti, all’estrema periferia est tra un parco sterminato, una serie di vecchie ville adibite a cure psichiatriche e una quotizzazione di terreni su rettangoli di quattrocento metri quadri, adibiti a orti o ad abitazione; è uno strano memoriale, laddove il manufatto centrale ospita un cerchio tombale in cui a fianco di rosa, karl, franz mehring, leo jogiches e altri compagni di quei memorabili giorni vi sono anche stalinisti storici quali walter ulbricht, mentre per converso un’aiuola appena antistante, anch’essa cosparsa anch’essa dei fiori dell’anniversario, commemora le vittime dello stalinismo; al centro di questo spazio, che in quella mattina appariva straordinariamente triste e freddo, si innalza un monolite di pietra rossa che dice questo: “die toten mehnen uns”, la morte ci ammonisce; è severa la morte, ma forse le menti umane sono più dure di quanto lo siano i suoi ammonimenti;

nei giorni di mezzo, domenica e lunedi, sono andato dove mi portava il cuore; andando giù verso kreuzberg, il sobborgo popolare della vecchia berlino ovest, si trova il museo della resistenza tedesca, su una via oggi dedicata a claus von stauffenberg il quale fu l’ufficiale che organizzò l’attentato ad hitler effettuato nel 1944; non posso qui descrivere le ore che ho passato là dentro: alcune ore, anche se ero l’unico visitatore; cito solo un nome che raccomando di andare a cercare, il nome di georg esler: io non conoscevo la sua storia prima di quella grigia mattina, a kreuzberg, e ne ho ricavato una nuova lezione, ed un dono;

non lontano dal memoriale della resistenza si trova un grande spazio vuoto, quello in cui era situata la grande stazione ferroviaria di anhalter prima che fosse rasa al suolo dalle bombe, nel 1945; è rimasto integro ed inquietante, tuttavia, un grande bunker a più piani, nel quale è stato allestito non un museo tematico, ma una domanda: “wie konnte es geschehen ?”, “come è potuto accadere ?”; credevo di avere colto abbastanza di ciò che è stato il nazismo; sbagliavo: nessuno di noi sarà mai in grado di comprendere abbastanza, ed è per questo che ciò che è mostrato in quell’orrido immenso cubo di cemento armato è raccolto nel segno di una domanda, e non di una risposta; germania, squallida madre;

è curioso che la via limitrofa a questo luogo, risalendo verso mitte, il centro della città, sia dedicata a rudi dutschke, che è per me una delle figure più significative, ammirevoli e luminose del secolo più buio della storia dell’umanità; allora un viandante, tra un richiamo toponomastico o statuario a bismarck o a kant, può lasciarsi tentare dalla dedica delle vie; ebbene, nei dintorni del celebrato check point charlie, sempre piuttosto vicino ad anhalter o alla rudi dutschke strasse, si trova una minuscola strada intitolata ad hannah arendt; alla cara vecchia hannah, o meglio alla via a lei dedicata, è toccato il compito di separare materialmente sul terreno il fuhrer bunker, ovvero il locale sotterraneo nel quale si suicidò hitler, e il grande prato di memoria dell’olocausto: due luoghi che giacciono inesorabilmente fianco a fianco, senza che nessun oblio li possa mai più slegare; oggi sul luogo maledetto c’è un piccolo parcheggio condominiale, con un minuscolo cartello giallo che ne indica quel fatterello di qualche decennio fa, accaduto alla fine di aprile del 1945 con qualche capsula di cianuro e qualche colpo di pistola; il memoriale dell’olocausto è una distesa di sagome tombali mute e grigie, ma non vi è proprio bisogno di effetto scenico;

non so come chiudere questa retrovisione, pallida madre; continua a non piacermi il tuo reichstag, quello in cui hitler appiccò il fuoco nel 1933, quello su cui due soldati dell’armata rossa fissarono nel 1945 la bandiera della redenzione, quello stesso che oggi ospita imperturbabile nel suo giardino il memoriale dei sinti e dei rom; e non mi piace nemmeno il tuo bundestag, edificato al suo fianco in prossimità del vecchio ponte sul fiume, perché non capisco questa ostinazione a voler sublimare l’assenza di cielo e di orizzonte con l’esasperazione di parallelepipedi di vetro e acciaio sul paesaggio: cosa te ne fai di tutta questa geometrizzazione dello spazio e di tutta questa cronometrazione del tempo, su questa tua povera figlia adottiva, la città così gravata di incertezza, di gentilezza e di dolore?

e così chiudo questa visione come ho fatto camminando quel giorno: guardando il cielo come una specie di preghiera, dal minuscolo cimitero di friedhof in dorotheenstadt, di fronte alle tombe di fichte ed hegel, distante dal tuo parlamento solo una decina di minuti; da loro ho imparato a convivere con quella cosa che più di tutte ci segna e di cui tuttavia non parliamo mai, la falsa coscienza; da loro, e da karl marx, da rosa, da rudi, e cioè da berlino stessa piccola figlia gravida di dolore, ho imparato forse più che da chiunque altro, fatta eccezione per quelli come mia madre che non hanno mai scritto libri; è stato lì, sotto la casa di bertoldt brecht, che ho segnato la strada di casa con la preghiera della conciliazione: non oggi per ieri, ma oggi per domani.

Gian Luigi Deiana

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