GENERAZIONE ERASMUT (in difesa della torre di babele: considerazioni sul mutismo e sulla mutualità) di Gianluigi Deiana

GENERAZIONE ERASMUT
(in difesa della torre di babele: considerazioni sul mutismo e sulla mutualità)

di Gianluigi Deiana

Io ho sempre trovato ambiguo il mito della torre di Babele, quella sua maledizione sulla diversità di tutte le lingue e quella sua desiderabilità di riduzione della comunicazione umana a una lingua sola benedetta dall’onnipotente: quel suo auspicio religioso della lingua dell’onnipotenza, cioè quella situazione in cui potrà dirsi a ogni individuo e a ogni comunità e ogni comunicazione “non avrai altra lingua al di fuori della mia”.

Penso che il valore supremo della comunicazione umana consista nel desiderio di riconoscimento, la cui condizione è la reciprocità, cioè la mutua disposizione alla curiosità per l’altro e alla condivisione del suo orizzonte; senza questa mutualità, Dio è morto.

Si dice che questo sia il tempo fatidico della generazione erasmus, la grande avanguardia senza passato lanciata al dominio del futuro; presi uno per uno questi bravi avanguardisti planetari, che muniti di trolley e voto massimo in inglese piovono da montepulciano a Bangkok, da Gradisca d’Isonzo a Tromsö, da Campobasso a Palo Alto ecc., diventano in un batter d’occhio il vanto di presidi di liceo e zie, l’oggetto di invidia di amici meno scafati e il modello di riferimento dei discorsi sulla gioventù; eppure…

Eppure credo non sia mai esistita nella storia una fascia giovanile così tanto vocata ai ruoli di classe dirigente e così socialmente muta; così analiticamente ritagliata sulle rotte low cost, così spigliata in ogni angolo protetto del pianeta, così rapida su smart e tastiere, e così politicamente inerte, così esistenzialmente inutile e assente.

Si dovrebbe poter supporre che il viatico fondamentale deputato a illuminarne la via sia almeno erasmo in persona, la conoscenza del valore e del prezzo dell’umanesimo educato sul libero arbitrio, la pratica coraggiosa della buona follia, la disposizione quotidiana alla “traduzione” di una lingua in un’altra, di una casa di significati in una capanna di altri significati, di un dolore in una poesia; ma cosa potrà mai essere disposta a “tradurre” una generazione erasmut?

(dedico queste righe alla memoria di Carlo Giuliani, alla babele di lingue del g8 di Genova di diciotto anni fa, e alla denuncia di quel monolinguismo muto il cui fonema fondamentale è un colpo di pistola).

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