ESTREME DIMORE case e tombe in Islanda di Gian Luigi Deiana

ESTREME DIMORE
case e tombe in Islanda

Non so perchè mai Giacomo Leopardi si sia intestardito a immedesimarsi con un islandese al fine di poter avere un dialogo con la natura; dubito che potesse avere un’idea di questo posto, se si pensa che tal giovane favoloso considerava ermo colle persino la collinetta dietro casa.

Insomma un’Islanda fai da te uno se la può inventare dovunque, se si desidera smuovere uno stato d’animo; ma l’Islanda reale non è uno stato d’animo e anche chi la abita non sembra primariamente dedito alle poesie.

Come che sia, ciò che sconcerta maggiormente qui è il rapporto tra l’uomo e lo spazio e quindi, in concreto, la psicologia profonda dell’ “abitare”; mentre noi di giù usiamo considerarci consuetamente “abitanti” e quindi abitanti di un luogo, la spazialità islandese è costituita visivamente da assenza di confine, insignificanza della linea dell’orizzonte e vuoto continuo; in realtà un abitante di tali non luoghi è inesorabilmente un disabitante, dalla culla alla tomba.

Tuttavia questa sconcertante condizione di non luogo ha indotto nei secoli i suoi disabitanti a dare nomi a tutte le sembianze percettibili di questo niente apparente e ad abitarlo di personaggi fantastici e mitici fuorilegge, e quindi gli immensi deserti interni sono costellati di cartelli di toponomastica e leggende; e così se devi fermarti per farti un panino o semplicemente fare pipì sulla pista sconfinata, senza timore che alcuno ti veda, non vi è niente di meglio che accostare l’auto vicino al palo e realizzare il proprio momentaneo desiderio: è strano, è solo un piccolo palo nel niente con un nome assurdo in vichingo antico, ma sembra quasi di essere a casa.

A casa: per capire il concetto di casa qui è necessario capire tre diverse spazialità: la prima è Reykjavik, la capitale, la seconda è la campagna coltivata, e la terza sono i villaggi di pescatori.

In realtà, per successione storica, si dovrebbe iniziare dai villaggi di pescatori: essendo essi edificati intorno a un approdo, prendono per necessità propria la fisionomia del villaggio, con le casette fianco a fianco e la piccola chiesa col cimitero sulla collinetta centrale; bene, questa è l’unica situazione abitativa propriamente sociale che qui sia dato vedere: c’è la scuola, l’emporio, le staccionate di stoccafisso, reti da pesca, il municipio con la bandiera ecc..

La campagna coltivata, che occupa le valli alluvionali costiere, invece è totalmente priva di soluzioni di villaggio: le fattorie, tutte bianche coi tetti rossi come quella del mulino bianco, distano anche chilometri l’una dall’altra; esse sono isole umane e animali nel niente, laboriose e ordinate con perfezione geometrica assoluta, con i trattori in linea come alla parata e i balloni di fieno in piena simmetria: solo le mucche si illudono di ignorare queste disposizioni, ma per il resto è impossibile per i mariti incontrarsi giù all’osteria o per le mogli stare a spettegolare mentre si stendono i panni: niente di tutto ciò, un contadino islandese può soddisfare queste esigenze sociali soltanto tra sè e sè.

Reykjavik, per chi ha potuto vederla anche solo vent’anni fa, è invece un esempio insuperabile di sacco edilizio: è incomprensibile una tale febbre palazzinara per una città che ha sacrificato in pochi anni tutta la sua identità abitativa piccina e onorata dai secoli e dal mare per tramutarsi in una proliferazione di architetture d’avanguardia disperatamente cubiche e vuote, sparse su uno spazio immenso rispetto alla dimensione demografica.

E allora, quale può essere una cartolina rappresentativa di tali situazioni, se si considera che l’Islanda è grande più di quattro volte la Sardegna ma contiene un quarto del numero di abitanti di questa?

Ecco la cartolina: in una landa del nord disseminata di fattorie sparse vi è a un certo punto del niente una minuscola chiesa con un minuscolo cimitero; il luogo, o non luogo, si chiama Akuela e il cimitero ospita una trentina di lapidi; raramente i defunti hanno superato in vita i sessant’anni, salvo quelli nati nel 1800 che evidentemente erano più longevi; le lapidi del 1800 sono almeno il doppio di quelle del 1900, il che indica una intuibile difficoltà per le nuove generazioni rispetto a un disegno di vita ubicato così.

Ebbene, la tomba più bella ospita due coniugi, nati rispettivamente nel 1832 e nel 1837 e poi felicemente convolati in cielo; il recinto della loro tomba è costituito dal loro inossidato letto di ferro, quello che presumibilmente ne aveva ospitato le notti durante la vita: bella, bella davvero l’estrema dimora.

Gian Luigi Deiana

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