TARGET: sociologia di un virus – di Gian Luigi Deiana

TARGET: sociologia di un virus

di Gian Luigi Deiana

 

Poichè il demonietto è in giro da due mesi siamo ormai quasi in grado di azzardare riscontri significativi sulle sue preferenze ambientali e sulle sue frequentazioni sociali.

Un virus presenta sempre una sociologia, che è definita in genere dal suo campo di caccia e che corrisponde solitamente alle classi povere, abitanti in ambienti ad alta densità, caratterizzate da bassa difesa igienica e sanitaria e da promiscuità o prossimità con vettori animali.

E invece, sorpresa.

Il cosiddetto Corona Virus ama viaggiare in aereo e in crociera, allertare le superpolizie, invadere i tam tam mediatici in un modo propriamente “virale” come mai si era visto finora, mobilitare protezioni civili e persino grandi accigliati filosofi e incasinare ospedali, farmacie e scaffali dei market: un vero furbacchione.

Esso si avvantaggia inoltre di una sua insospettabile perfidia: induce tutti quanti a parlare, me compreso, e soprattutto a straparlare con l’erratissima convinzione di dire cose intelligenti.

Con questa subdola tecnica di corrosione mentale è riuscito in men che non si dica a dividere gli intelligenti in due fronti conttapposti: gli apocalittici, che sono portati a sfogarsi svuotando i market e a proteggersi picchiando cinesi inermi o immigrati purchessìa, e i negazionisti, che si sfogano denunciando piani securitari generalizzati e che asseriscono di avere per certo che vi sia alla base un progetto di militarizzazione della società.

Insomma il virus coronato si diverte a far venire a galla sedimenti mentali mille volte più ammorbanti di quanto lo siano i danni reali che provoca nei polmoni.

Esordisce in Cina in un grande bacino idrografico che è anche un grande bacino industriale, laddove viene fronteggiato con una opzione di protezione totale, o più brutalmente di quarantena totalitaria.

Insorge qui il primo problema teorico e pratico, quello sulle opzioni raccomandabili nel caso di una emergenza di massa: ai due estremi, l’opzione totalitaria, rispondente al costume comunitario cinese, e l’opzione fai da te, rispondente all’individualismo borghese italiano.

Si può certamente supporre che in definitiva l’imputato attuale non è poi così pericoloso, tuttavia la sua scorreria planetaria è rivelatrice di cosa si sarebbe capaci e di cosa incapaci nel caso di una reale emergenza totale: quanto capaci di irresponsabilità e sciacallaggio, e quanto incapaci di reponsabilità sociale e cura reciproca.

L’anteprima cinese evidenzia da un lato l’incubo di una epidemia di portata ignota in un ambiente metropolitano sovrappopolato, e dall’altro la sperimentazione dell’autoquarantena generalizzata.

Penso che tutti i negazionisti, gli scettici e i complottisti dovrebbero semplicemente argomentare se vi era o non vi era necessità di procedere così.

Ho anche il sospetto che molti tra questi, per esempio i sostenitori patologici della tesi della speculazione farmaceutica, plaudiscano alla linea emergenziale in Cina tanto quanto aborrono la linea emergenziale in Italia; è difficile da capire, ma siamo fatti così.

Spalancata la scena cinese, ovviamente gli apocalittici davano per certa una mondializzazione dell’infezione attraverso l’Asia, i paesi Arabi, l’Africa e l’America latina, con ovvia preferenza per le sconce periferie metropolitane e per le sterminate popolazioni contadine, e con ciò l’occasione data dalla provvidenza alla parte sana del genere umano, urbana, bianca e occidentale, per blindare tutto una volta per tutte.

Invece la provvidenza questa volta ha dato di testa: si è messa d’accordo col corona virus e ne ha miniaturizzato il terreno di caccia tra Lombardia e Veneto.

La Brianza è diventata per qualche settimana la nostra piccola Cina e un po’ il nostro piccolo Yang Tze, e luogo accertato di incubazione, contagio ed export aereo e di alta velocità sulle grandi capitali europee.

Ci sono intere redazioni alla caccia disperata di prove di presenza del virus in Congo o in Algeria, ma non c’è niente da fare, al demonietto piace più di tutto la Lombardia.

Sarebbe stato logico se un maestro di Palermo  in servizio a Cremona fosse stato imputabile come paziente zero nell’epidemia lombarda, meglio ancora se fosse stato un pizzaiolo napoletano, o un carpentiere romano o uno studente barese, e invece è avvenuto esattamente il contrario: il virus viaggia in aereo e in crociera e ama un abbigliamento consono al turismo e agli affari.

La controprova asiatica non è a Bangkok o a Bangalore o Calcutta, ma in seno alle mirabolanti classi medie della Corea del Sud e del Giappone: una specie di quarantena del sol levante e di umiliazione del toyotismo, cioè un ossimoro astronomico.

Resta da fare l’identikit di chi svuota gli scaffali dei market o di chi triplica i prezzi delle mascherine: chi è abituato a non farsi la cena e non sa come fare una frittata qualsiasi, come può mai reagire se entra nella paranoia di dover evitare bar e ristoranti e deve provvedere da sè per un tempo imprecisato?

Anche da questo punto di vista la sociologia è implacabile: uno studente di Bari o una madre di famiglia originaria di Crotone o di Marrakesh non hanno bisogno di garantirsi dispense di commestibili per affrontare la situazione, anche perchè non dispongono dei soldi per poterlo fare.

Tanto meno gli scaffali rappresentano una necessità irrimediabile nei paesi e nelle cittadine di matrice contadina.

Dal punto di vista del costume, il corona virus ha messo in mutande la borghesia reale, tanto quanto ne ha messo in mascherina il pregiudizio razziale scatenato per anni fino ad oggi.

Salvo per le prerogative storiche della legge del contrappasso: è contro i blindatori che oggi si evoca da ogni parte l’opportunità della blindatura.

Fa un certo effetto venire a sapere che le autorità bulgare o quelle elvetiche o francesi o addirittura cinesi innalzano il cordone sanitario contro il lombardo-veneto, per di più facendone pagare il prezzo all’economia turistica del resto del paese.  

Che virus birbante.

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