TEMO, PER UN NON SO: periplo della Sardegna, ultimi cento chilometri – di Gian Luigi Deiana

TEMO, PER UN NON SO
periplo della Sardegna, ultimi cento chilometri

di Gian Luigi Deiana

 

 

Se un fiume si deve giudicare dalla foce, il Temo è praticamente l’unico vero fiume della Sardegna e Bosa l’unica città sarda propriamente fluviale: per difendere le case dalle inondazioni, quando in giornate di maestrale il mare stesso fa da diga al flusso d’acqua del fiume respingendolo verso la golena e la valle, sono stati escogitati nei secoli imponenti tentativi di contrasto, fino alla grande muraglia dislocata di recente, con il traffico di decine di migliaia di cassoni di camion carichi di macigni.

Se un giro si deve giudicare dal traguardo, questa volta anche io ci sono vicino: sono le otto di mattina e da qui davanti al fiume inizio ora l’ultima tappa del mio periplo della Sardegna.

Gli ultimi cento chilometri, dalla maestosa foce del Temo alla piccinissima foce del Tirso, seguendo la linea di costa nel capriccio dei capi e delle scogliere: gli ultimi cento di milleduecento chilometri duri, muti e inebrianti, da una golena all’altra di foci di fiume segnate sulle carte e di fatto inesistenti, mimetizzate in stagni e lagune o inghiottite da dune e labirinti di sabbia.

Da Piscinas al Mannu, dal Flumendosa al Cedrino, dal Coghinas al Calic di Alghero.

E al Temo: un giro insensato e futile, desiderato e compiuto per un non so, in una dozzina di tappe piene di attesa e di stordimento.

La Sardegna non sembra così tanto grande.

Ma se prendete i milleduecento chilometri del suo giro e li stendete in linea sulla costa italiana del tirreno essi misurano esattamente la distanza da Ventimiglia a Lamezia Terme, o da Genova a Reggio Calabria, e anche la mia mente stenta a crederci.

Ieri mentre rollavo sull’asfalto granuloso del mezzogiorno, da Palmadula verso Capo Caccia, ho incrociato una strada secondaria segnata come “strada Puddighinu”, strada del pollastro.

Stavo facendo il conto di dove potesse essere il mio millesimo chilometro e poichè è capitata quella strana coincidenza di incrocio, con la maestà del capo più strepitoso della grande isola aperto lì davanti, ho deciso che il mio millesimo chilometro fosse quello, quello di Puddighinu;

Puddighinu per il mio paese non è solo il nome sardo del pollastro: Puddighinu è stato invece un paesano particolare.

Si chiamava in realtà Salvatore Piras, ma il nome veniva usualmente storpiato in Trabadore o Trubadore e il cognome veniva invece sostituito dal soprannome.

Ma con questa virtuale carta di identità, Trabadore Puddighinu, è stato forse per decenni il compaesano più noto in tutta la Sardegna.

Era certamente una persona povera e votata all’assoluta precarietà: era un uomo a noleggio, un “trubadore” appunto, reclutato alle fiere di bestiame per trasferire mandrie o greggi o sparute truppe di vitelli da un capo all’altro dell’isola, su sentieri sconosciuti ai più, mai segnati sulle carte e per quanto possibile distanti dalle complicazioni delle strade carrozzabili, in una successione interminabile di giornate torride e di notti all’addiaccio, di gracidare di cicale e di suoni notturni, in una frugalità oggi forse impensabile che è durata dall’infanzia alla vecchiaia.

“Trubare”, da noi, vuol dire transumare bestie.

E vuol dire vivere i paesaggi e modi del clima, lo spazio e il tempo, in un compromesso perpetuo tra l’uomo e la bestia: laddove talvolta non si sa chi propriamente sia la bestia, e chi l’l’uomo.

Per quanta gente l’infanzia non è mai stata la tenera infanzia, e la vecchiaia non è mai stata la serena vecchiaia.

È stato solo il fluire del tempo, verso una foce.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *