CENT’ANNI DI SARDITUDINE: un viaggio nel passato – di Gian Luigi Deiana

CENT’ANNI DI SARDITUDINE: un viaggio nel passato.
di Gian Luigi Deiana
 
il 6 dicembre mio padre compiva cento anni, anche se ora è dall’altra parte da tempo.
Era nato appunto il 6 dicembre del 1923, e allora così come oggi era il giorno di San Nicola, però lui si chiamava Giuseppe, per rinomare un suo bisnonno dell’ottocento.
 
Al mio paese (Ardauli), quelli che si chiamano Giuseppe sono numerosi, laboriosi e contaballe, però così per natura e sempre innocentemente e a ben vedere credo che lo fosse anche quel falegname di Nazareth, in giro tempo fa.
Il più esemplare di questa antropologia l’ho visto in un film che ricostruiva la vicenda giudiziaria di quattro ragazzi irlandesi, incarcerati con una montatura della polizia britannica con l’accusa di terrorismo.
Diventarono noti come i quattro di Guilford e il padre del più grande di loro fece in modo di farsi arrestare per poter stare in prigione vicino al figlio.
Si chiamava Giuseppe, proprio in italiano nonostante fosse irlandese. Morì in cella e quando questo avvenne tutti i prigionieri accesero batuffoli di carta e lanciarono queste piccole fiammelle oltre le sbarre nel buio della notte e piansero, mormorando quel nome, e per come può succedere vedendo un film piansi anche io con loro (“In the name of the father – In nome del padre” di Jim Sheridan – 1993).
 
La balla giuseppesca più memorabile del mio paese si verificò una mattina qualsiasi, quando un Giuseppe molto ermetico transitava di buon passo in strada per gli affari suoi. Inevitabilmente incrociò la combriccola dei perdigiorno e di qui gli pervenne la richiesta di allentare il passo e approfittare per raccontare una frottola.
Egli espresse un garbato diniego, dicendo che non era il caso in quanto era diretto a casa del morto.
Ovviamente tutti furono sorpresi e chiesero chi era il morto.
Egli lo rivelò sottovoce e riprese il suo passo.
In men che non si dica l’intero paese cadde nello sconcerto, di strada in strada e di casa in casa… solo che non era vero, era solo un capolavoro dell’arte di inventare balle. 
 
Mio padre non era così sofisticato, odiava persino giocare a carte.
Amava raccontare ma si perdeva sempre in una specie di racconto senza trama.
A diciannove anni fu chiamato alla guerra e finì subito in Croazia.
Era la vicenda che gli restava fissa in mente ma che non riuscì ad elaborare mai: in tanti brandelli di storie inconcluse a noi piccoli sembrò di capire che lì al fronte era addetto a recuperare le salme, dove capitava di morire.
Però inevitabilmente, a un certo punto del racconto si interrompeva, e fissava a vuoto qualche brace nel camino.
 
Come quasi tutti qui anche lui fece stagioni migratorie, da minatore in Belgio e da operaio in Svizzera.
Dal Belgio tornò clandestinamente: aveva fatto a botte con un capetto della miniera e dice che gli aveva rotto un braccio: il passaporto lo avevano loro in ufficio e quindi se ne venne in patria da clandestino… solo uno di nome Giuseppe poteva essere capace di un tale capolavoro.  
 
L’ultima volta delle migrazioni tornò dal Canton Ticino a Civitavecchia in bicicletta, circa seicento chilometri, con il proposito di trovare là per l’Italia un luogo dove poter portare un gregge di pecore e anche tutta la famigliola.
Io avevo undici anni e ricordo che mamma, davanti alla carta stradale dell’Italia sul tavolo di cucina e a fronte di una alternativa tra Forlì e Viterbo, disse “Viterbo”.
Giuseppe spiegò che nel caso si trattava di un paesino di nome Barbarano, e che poteva essere comodo perchè sarebbe stato possibile scaricare il gregge dal treno proprio a Civitavecchia e poi tirare su a piedi fino a Barbarano su una ferrovia ormai abbandonata.
E così fu: bisognava attraversare la città di Civitavecchia con centoventi pecore, ma poi si andava in un agro che si stava rivelando importante dal punto di vista Etrusco e soprattutto da quello di un Gustavo Adolfo Re di Svezia che amava dilettarsi tra le necropoli.
 
La patrona di Barbarano è santa Barbara.
Barbarano è un luogo piccolo e particolare, e poi dentro le mura chiunque ti incontri ti dice buongiorno anche se non ti ha mai visto.
Ci sono cinque chiese ma nessuna di esse è dedicata alla santa patrona, in quanto santa Barbara è dal punto di vista canonico una invenzione o una specie di leggenda.
Tuttavia è venerata in oriente e in occidente come martire o meglio come vittima di patriarcato, come la povera Saman dei nostri giorni.
Sarebbe nata in Turchia, proprio vicino agli stretti, nel 270, e fu uccisa trent’anni dopo.
 
Santa Barbara è assunta come patrona di varie attività aventi a che fare con le esplosioni e coi fragori.
In Sardegna trova devozione particolare nei villaggi minerari e tra i minatori e uno di questi luoghi si chiama Domusnovas.
Con la crisi delle miniere e le presunte condizioni di favore per l’installazione di servitù militari è potuto succedere che Domusnovas sia diventata sede della più importante fabbrica di bombe d’aereo di tutta Europa.
Il gruppo industriale è tedesco, si chiama RWM ed è un ramo della Rhein Metall.
Anche a Domusnovas la patrona è lei, Santa Barbara, e infatti qualche anno fa il parroco del paese intese invitare i dirigenti della fabbrica alla messa solenne del 4 dicembre.
Fu sconcertante per tutti noi vedere in tv le immagini di una solennità intitolata alla santa degli esplosivi patrocinata dai capi della produzione delle bombe destinate allo Yemen: oggi è Gaza, ma già allora il vescovo se ne adirò molto.
 
San Nicola a sua volta nacque anch’esso in Turchia e proprio intorno al 270.
La sua biografia storica è tuttavia accertata e quindi è un santo regolarmente canonizzato.
Non è patrono di Barbarano, ma è una specie di jolly deputato a varie allegre mansioni, in particolare proteggere i marinai nel mediterraneo e portare doni ai bambini in Lapponia: infatti Bari in Puglia e Rovaniemi in Finlandia sono le sue due capitali preferite, e non batte ciglio se il rito che gli si rivolge sia cattolico, protestante o bizantino.
 
Così in prossimità di questo 6 dicembre del 1923 mi sono trovato a dover decidere come onorare il suo giorno, il giorno dei cento anni.
In realtà poi è stato semplice, e anche imperativo: Santa Barbara mi voleva a Barbarano per il 4 e San Nicola mi voleva a quelle campagne per il 6.  
 
Insomma di prima mattina scesi come mille altre volte dalla nave a Civitavecchia mentre pioveva forte, e io temevo di non poter andare al mio pellegrinaggio sulle campagne di allora, quelle di Giuseppe quando era ancora giovane e io avevo undici anni. Volevo stare in giro a piedi tutto il santo giorno e la pioggia non accennava a smettere.
 
Però poi a Blera è comparso l’arcobaleno: era il segno del mio Angelo.
Ho salutato il conducente e sono sceso nel primo raggio di sole.
Erano le dieci e trenta, alle 11 ero a Barbarano a dire buongiorno ai pochi paesani in giro e a cercare tracce di venerazione, alle 12 ero nel sentiero di Gustavo Adolfo, alle 13 a Caiolo ho pranzato tra le tombe millenarie con due pugni di corbezzoli rossi, alle 14 ero su per Sangiovanni sulla nostra terra e alle 15 alla Folgore, nel suo bosco strepitoso e poi alle 16 alla cura, nella sala di un rifornitore nei pressi del camposanto, a bere birra con Giuseppe nella mia mente.
 
Tutto il resto, tutto il resto, è stato nella mia mente, e vi è passato per restare. 
 
Onora il padre e la madre, dice un comandamento.
Non è sacrilegio invertire la dicitura, nel senso di onora la madre e il padre: Giuseppe sarebbe fiero di questa innocente rivoluzione.
Quando eravamo piccoli il mio nonno materno si premurava di portare primizie ai numerosi nipotini: ciliegie, melette, pere rosse ecc.: però mostrava sempre anche un ciuffetto di frutta a parte, molto più curato e più bello.
Lo faceva apposta, perchè appena noi lo adocchiavamo lui diceva: “questo no, questo è per Maria”.
Maria era sua moglie, cioè nostra Nonna; e poi man mano abbiamo capito il trucco: lui montava tutta la scena per dire a noi piccoli, a modo suo, che prima viene la madre.
 
Dopo la sosta verso il camposanto ho camminato ancora fino al buio per arrivare a Tre Croci, un piccolo borgo più a nord.
In sette ore di cammino ho riattraversato in campagna oltre venti chilometri di passato, e oltre cinquant’anni di identità familiare: campagne mie come non mai.
Il primo anno che fummo lì era il 1964, credo non esistessero mungitrici ma di certo non vi era elettricità nei recinti di mungitura e non vi erano nemmeno stalle o luoghi coperti.
Le transumanze erano consuete e d’inverno le bestie erano solo povere bestie: come anche Giuseppe, un pò.
 
La più bella delle nostre povere bestie, appena fummo lì, fu senza dubbio la cavalla: ci era necessaria per trasportare il latte, poichè non vi era una rete sufficiente di strade carrozzabili.
E del resto Giuseppe era ancora ben lontano dall’idea dell’automobile.
Però la cavalla era troppo bella e mio fratello più grande si compiaceva di andarci in giro nel paese: fino a che, un bel giorno, fu fermato dai carabinieri a un posto di blocco e prese una multa perchè “cavalcava un cavallo privo di cavezza”, cioè a pelo e senza briglie.
Però non so se i carabinieri lo fermarono con la loro paletta, oppure no.
 
Quando morì mia nonna, nell’inverno del 1971, Giuseppe dovette tornare precipitosamente alla nave: si trattava di sua madre, e io e i miei fratelli dovevamo provvedere al gregge.
Però quella notte nevicava forte e la notte prima c’era stato terremoto in giro per tutto il nostro territorio.
Avremmo potuto stipare le nostre bestie in un vecchio casolare, per risparmiarle dal gelo, o lasciarle al gelo, per risparmiarle dal sisma.
Avevamo madre e padre alla nave, per il loro comandamento; e noi decidemmo per il nostro, e la mattina dopo c’era di nuovo il sole.
 
Da un arcobaleno a Blera, alle dieci di mattina, alla nebbia a Tre Croci, alle cinque della sera: sette ore tra pascoli e necropoli, una ferrovia abbandonata e un santuario nel bosco, una santa delle esplosioni e un santo dei bambini: potrebbe essere uno scenario per dovunque, ma per me e i miei fratelli, e per Giuseppe, nostro padre, è solo cento anni di sarditudine. 
Grata a quella gente e quei luoghi che sono stati accoglienti e gentili per noi, e felice di avere ricambiato fino a riconoscerci in piena vicendevolezza.
 
((… Un viaggio nel passato non è facile da raccontare: ma è necessario più che mai raccontarlo a se stessi. Il “passato” in realtà non esiste: non è una cosa, è un passare, e il passare è costituito di passi. Ciò che passa non è una cosa (“il tempo”) ma sei tu. Senza di te, e senza il passare dei tuoi passi, “il tempo” semplicemente non esiste: e senza di te, non esiste nemmeno il senso.))
 
 
 
 
 
 

4 Risposte

  1. Teodolinda ha detto:

    Carissimo Luigi il Gian.
    Avevo scritto un pensiero gentile e anche un tantino filosofico. Ispirata dal tuo racconto, naturalmente.
    Ignorante della tecnica informatica in attimo ho perso tutto.

    Sollecitata dalla maglia glutinica del mio speciale impasto, ora mi approssimo al tavolo di lavoro, ripensando al tuo racconto e seguendo con l immaginazione i tuoi piedi resilienti ad attraversare gli spazi, quelli messi a fuoco dalla tua narrazione. Spazi cuciti dal tempo che pare seguire non un ordine lineare e progressivo ma di segno opposto.

  2. bruno firinu ha detto:

    Come ho avuto modo dire in altre occasioni,leggerti è sempre un piacere

  3. Andreana ha detto:

    Caro Gian Luigi, i tuoi racconti mi lasciano sempre ” abbevelada ” e in questo in particolare c’è tutta la tua e nostra sarditudine.

    • gian luigi deiana ha detto:

      oh mio dio: non so se “abbevelada” abbia un significato equivalente ad ardauli o se sia una espressione metaforica, come “consolata” ecc.; per me, titolare i cento anni di mio padre cento anni di sarditudine è stata una specie di illuminazione: quando di garcia marquez leggemmo macondo non riflettemmo abbastanza sul fatto che la sua era una meravigliosa parabola: perchè macondo non è un luogo immaginario: anche ardauli è macondo, e mille altri luoghi; poi, la sarditudine è bella: sa fare ovunque tessiture di vicinato, per esempio da mia madre convenivano ogni pomeriggio le vicine mentre lei faceva pazientemente il formaggio; davanti a quel camino si costituiva ogni giorno una sarditudine universale, ed era tutta di donne, a barbarano, poi ad aurelia, poi a vetralla ecc.; così poi in giro nei pascoli e nei boschi e a scuola e all’università; le difficoltà erano quotidiane, ma erano nelle cose e non nelle persone: oggi temo che siano nelle persone, e quindi non basta la sarditudine, dobbiamo essere capaci di fare scuola, all’altezza di questi stupidi tempi

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