DIPARTITA IVA: il naufragio del lavoro alla prova del primo maggio – di Gian Luigi Deiana

DIPARTITA IVA

il naufragio del lavoro alla prova del primo maggio

di Gian Luigi Deiana

 

È inutile stare qui a constatare quello che vediamo tutti, e cioè che non siamo in grado di vedere quasi nulla davanti.

Tuttavia siamo ancora in grado di vedere ciò che abbiamo intorno, ciò che può aspettare, ciò che resiste, ciò che è aggrappato a qualcosa, ciò che ha mollato la presa, ciò che è alla deriva, ciò che è perduto.

Oggi è il primo maggio e almeno un riferimento ai delegati storici della celebrazione della Festa del Lavoro va fatto.

Il Popolo del primo maggio è il Popolo dei Lavoratori.

Più visibilmente è il popolo dei lavoratori dipendenti.

Più classicamente ancora sono i sindacati, sia in quanto sindacati dei lavoratori salariati sia in quanto rappresentanza storica dei lavoratori in genere.

Questa concentricità (lavoro in genere, lavoro salariato, sindacato organizzato del lavoro dipendente) ha funzionato per una o due generazioni, quelle del secondo dopoguerra, sul presupposto che la forza contrattuale dei sindacati del lavoro dipendente avrebbe agito anche come macchina distributiva di tutta la ricchezza sociale, a vantaggio dell’intera società.

Ma da almeno vent’anni non è più così, e questo arretramento in specialismi di contratto spiega come una didascalia le immagini del primo maggio 2020: non tanto una Festa del Lavoro senza lavoratori, così necessitata per l’infuriare dell’epidemia, quanto un passaggio cruciale dell’emergenza nel quale sono presenti e pressanti tutti eccetto i lavoratori stessi.

Perchè questo vuoto di società in un momento così socialmente drammatico, in cui i modi del futuro sono così imprevedibili e così rischiosi e così impossibili da affidare nelle mani di monopoli economici e di demagoghi politici?

Perchè questo vuoto è in mani emergenziali sperabilmente prudenti, sia sanitarie che governative, ma che per l’insufficienza di queste è anche preda di scorrerie politiche degne della savana più che di un parlamento repubblicano?

Una grande epoca storica è finita; se il virus Covid passerà senza lasciare altre devastazioni dobbiamo aver chiaro che ben prima di assorbirne le ferite avremo altri morsi improvvisi e senza sconto: questo ventunesimo secolo è il secolo delle emergenze e non più il secolo del benessere.

Tutta la prospettiva deve essere ripensata e deve esserlo a partire dalla parte di società deputata a rifare il mondo, il lavoro umano.

Oggi l’emergenza stessa impone di ragionare su chi è precipitato nel limbo del non lavoro senza che vi si sia mai prestata seria attenzione.

Su chi vi sta precipitando, e chi vi precipiterà.

Il mondo è ricco ed iperproduttivo: con quale equilibrio questa sua obesità potrà continuare rigettando nella morte sociale sempre più gente?

Il punto di separazione non è semplicemente quello che corre tra capitalisti e salariati, o tra autonomi e dipendenti: è quello che corre tra garantiti e non garantiti, poichè è questa soglia che determina in ciascuno la sua auto-identità e quindi la sua volontà di coscienza sociale.

Questo sterminato esercito di vita offesa ora vede precipitare nelle sue fila persone che non avrebbero mai temuto per sè un tale destino.

Persone che mediamente sarebbero esplose in moti rabbiosi a sentire solo parlare di solidarietà sociale, di tassazione progressiva e di imposta patrimoniale.

Ebbene, è ora che tutto questo mondo umano trovi un segno di fiducia capace di fare appello a una grande prova di coraggio.

Pensare un legame politico di solidarietà tra garantiti e non garantiti, tra i salvi e i precipitati, è di importanza fondamentale.

Oggi sappiamo che il balletto delle cifre sul PIL segna bufera per la Francia e per la Spagna ancora più che per l’Italia.

Gli Stati Uniti contano milioni di disoccupati e la locomotiva industriale europea è bloccata dalla sovrapproduzione.

Non sappiamo quanto i monetarismi possano essere capaci di sostituire con moneta fittizia la moneta reale.

Una sola cosa oggi è chiara su ciò che va fatto: legare i destini.

Io G.L.D. sono un garantito: attualmente necessito di metà del mio reddito mensile di pensione e quindi sono teoricamente in grado di autoimpormi una corrispondente imposta patrimoniale su ogni mese di emergenza.

Benchè io ne sia il meritevole beneficiario il mio patrimonio, come tutti i patrimoni, è in primo luogo un patrimonio sociale ed in emergenza deve tornare tale.

In assenza di una legge che lo preveda io la patrimoniale me la legifero da me, provvedendo alle necessità di persone care come si faceva nei sistemi tribali.

Siamo ridotti a questo.

Ora, perchè dichiaro questo?

Non solo per cercare di rafforzare la domanda politica in favore di una imposta patrimoniale, ma per imporci uno per uno, nel momento in cui i piccoli esercizi autonomi riprenderanno l’attività, il compito quotidiano di corrispondere a quelle riaperture.

È interesse generale che la riapertura sia lenta e controllata, ma il costo di questo sacrificio deve essere condiviso, e in termini puramente logici solo l’imposta patrimoniale può assolvere a questo.

È per tale ragione che l’ipotesi patrimoniale è combattuta al massimo grado proprio dagli opportunisti politici che cavalcano strumentalmente la domanda di ripartenza immediata e generalizzata, modalità che al presente non è affatto nell’interesse generale.

 

Far ripartire le partite iva: è un compito per i lavoratori, non uno slogan per gli sciacallaggi parlamentari.

 

 

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