IO, TU, E LE COSE: trarre anche al Natale, un qualche senso – di Gian Luigi Deiana
IO, TU, E LE COSE
trarre anche al Natale, un qualche senso
di Gian Luigi Deiana
Un minuto fa ho scritto il titolo qui sopra e poi anche il sottotitolo, col proposito di riportare il cosiddetto Natale alla sua piccola dimensione e di immaginare che cosa ci si fa e cosa ci si può fare.
Però questa volta caro Gesù siamo in un vero pasticcio perchè un conto è ciò che sul Natale avrei potuto dire in genere e un altro conto è ciò che ci càpita addosso quest’anno.
Il Natale in genere è stato per tanti anni (per me) quel giorno in cui comunque tuo padre e tuo fratello più grande devono andare a mungere pecore, cui da pochi giorni è stata sottratta la figliatura, e tua madre e tuo fratello più piccolo devono mettere legna a un camino da prima mattina, per fare formaggio.
E io che non ho mai imparato a mungere e nemmeno a fare formaggio ho il privilegio di alzarmi più tardi, però quale che sia il tempaccio là fuori devo andate lassù a portare quelle bestie a pascolare, almeno fino al tepore del primo pomeriggio.
lo giuro, l’ho fatto tutte le volte che era necessario e quindi innumerevoli volte.
Quando c’era neve almeno qualche ora, quando era di tramontana bisognava farsi guidare dal gregge verso una china riparata, dove le bestie potessero stazionare in una specie di trinceramento coi loro corpi.
Però altre volte c’era anche il sole.
Io non ho mai imparato a mungere e nemmeno a fare il formaggio, è davvero un rammarico che porterò gelosamente alle verdi praterie, un giorno, ma quanto a portare un gregge bianco al pascolo ed entrare in sintonia con quel movimento di corpi, (di anime, per me), a casa non mi batteva nessuno: lì ero bravo, io credo.
Ora, cosa c’entra questo col cosiddetto Natale?
Non so, c’entra solo perchè mi sovviene.
Io e i miei fratelli andavamo alle scuole, e quindi è chiaro che nei giorni qualsiasi erano soltanto mio padre e mia madre a fare tutte quelle cose. Ma per tutto il periodo di Natale no, mamma non voleva.
Era bello, immensamente bello quel giorno vissuto respiro dopo respiro.
E candidamente triste, con quella specie di densità dell’aria che si crea respirando nel freddo, con tutta quella fragile vita accanto intristita dalla sottrazione della figliatura.
Insomma se il cosiddetto Natale ha un senso, esso sta nella possibilità di essere un “vero” giorno qualsiasi, denudato da eleganze, festaiolità, circostanza, spot, cortesie, auguri ecc..
Un “vero” giorno qualsiasi: dal punto di vista di chi dal suo tempo qualsiasi non può “mai” elevarsi al rango di festa: sia esso solo, o gregge, o in gabbia, o in fuga, o incerto a se stesso …
Il vero problema di questi tempi non è la festa, è la quotidianità.
Dietro tante scemenze sul “vero” significato del Natale sta la nuda ombra sul vero senso di ogni giorno, ogni giorno qualsiasi, quello in cui si cerca di provvedere alle cose, e cioè quelle cose che non si fanno quando è festa.
Bene belli miei, questa volta siete accontentati: augurandoci che tutto vada bene, i più tra tutti noi non potranno fare “cose”, quali che siano, per almeno una decina di giorni: niente di niente, Befana compresa; forse la scopa, speriamo.
Però abbiamo forse una estrema occasione di misurare cosa significhi la perdita delle cose, intese come le cose qualsiasi che anche i bambini facevano fino a una generazione fa, come con pecore o vacche o con un martello e del legno o con acqua o con fuoco.
Senza le cose, io a te non ti vedo.
Tu non vedi me.
Noi non vediamo, non vediamo, mio Dio, nessuno senza le cose vede nessun altro.
Questo è il senso.