LA MARCHESA DEL GRILLO: dottrina e pratica del post-neofascismo – di Gian Luigi Deiana – 10 agosto 2023
LA MARCHESA DEL GRILLO: dottrina e pratica del post-neofascismo
di Gian Luigi Deiana
10 agosto 2023
Stiamo transitando, quasi senza accorgercene, dal disfacimento della seconda repubblica alla presunzione egemonica del post-neofascismo.
Giorno dopo giorno ecco che viene a galla, per così dire fisiologicamente dopo ogni salto azzardato, la riplasmazione allargata del sentire comune: ciò che usualmente era percepito come aberrante trova una sua santificazione (anchè), ciò che prima era de demoniis diventa de angelis (strage di bologna), ciò che era ministero della difesa diventa agenzia del commercio di armamenti, ecc., come tutto fosse normale.
Il fascismo non è da ridurre scolasticamente a una parentesi della storia passata: esso è connaturato ai modi possibili dell’evoluzione sociale ed in particolare della vita sociale moderna e della società di massa.
La complessità sociale reca con sè la necessità oggettiva di governo dei nuovi problemi e con questo l’auspicio soggettivo di semplificazione delle contraddizioni.
Il fascismo è il modo della politica che più è votato alla promessa e alla pratica della semplificazione: naturalmente assolve a questa sua vocazione adeguandosi alle fasi storiche, e cioè attraverso metamorfosi che ne conservino l’internità al discorso pubblico e la candidatura all’esercizio del potere.
Questa capacità di metamorfosi significa che esso cova sempre, che cova il seme che gli è proprio e che solo illusoriamente può essere dato per sconfitto.
Il fascismo italiano si è temporalizzato, come tutti sappiamo senza ombra di dubbio, nel ventennio 1920-1940.
Poi esso non si è affatto negato, si è anzi affidato alla cova nel primo ventennio repubblicano, travestendosi da destra nazionale o da postfascismo (1945-1970).
Poi la cova si è dischiusa, e ha dato luogo all’esplosione, stragistica e ideologica, di ciò che ora quasi tutti usiamo chiamare neofascismo (1970-1990).
Quasi tutti condividiamo la definizione storica del fenomeno neofascista: eccetto i post-neofascisti, cioè quelli oggi al governo del paese.
La cova che ha dato alla luce il post-neofascismo ha avuto bisogno di una lunga gestazione: era necessario superare la normalizzazione istituzionale impersonata da gianfranco fini (1990-2010), preservare i legami organici e la comunanza ideologica con il neofascismo dichiarato, e di qui procedere sul doppio binario.
Il populismo urlato come ricetta per l’egemonia, e il revisionismo a bassavoce come custodia dell’ideologia.
Giorgia Meloni rappresenta la quintessenza di questa doppiezza: l’urlo e la reticenza sono il suo modello comunicativo.
Sul maleficio del reddito di cittadinanza torna comodo urlare, sul tollerabile beneficio della strage di Bologna conviene tacere.
Conviene urlare contro il salario minimo, conviene tacere in favore dei superstipendi dei manager.
Conviene urlare contro le ONG che battono il mediterraneo, e lanciare allarmi sulla sostituzione etnica, come conviene statuire tacitamente una complicità assoluta con il regime tunisino che butta i suoi immigrati alla morte nel deserto.
Il caso Santanchè, anche per la sguaiatezza del personaggio, è assolutamente esemplare, tanto ridicolo quanto tragico invece è il caso De Angelis, ma anche il caso La Russa con la vena assolutoria per una vicenda di stupro la dice lunga.
Che cosa dice questa curiosa casistica, con la sua sconcertante densità?
Dice essenzialmente tre cose, che dovremmo considerare come i tre ingredienti fondamentali per il processo di costruzione dell’egemonia in mano all’estrema destra post-neofascista.
Primo ingrediente: le lobby e l’inserimento organico del lobbismo dentro le istituzioni.
Non solo le banche, i balneari, o i tassisti, o le corporazioni, ma in modo assolutamente incompatibile con la stessa Costituzione l’aver posto il capo della lobby degli armamenti alla guida del ministero della difesa.
Con un tale precedente, tutto diventa possibile.
La vecchia ideologia urlata del corporativismo si reincarna nella nuova pratica reticente del lobbysmo.
Il lobbysmo dei grandi manager di stato (vedi il ponte sullo stretto) ne è il primo clamoroso risultato.
Secondo ingrediente: la reticenza come opzione comunicativa nel discorso pubblico.
La reticenza sul caso Santanchè e sul crack di Visibilia, la reticenza sul caso De Angelis e sulla matrice fascista della stagione delle stragi, la reticenza sulle epurazioni alla rai, ecc..
Terzo ingrediente: il farisaismo, ovvero l’insistenza dottrinale sulla moralità degli altri e la reticenza sull’incoerenza propria.
È curioso che tutti grandi predicatori governativi di moralità cristiana difettino di assolvimento in materia di sacramenti e di precetti.
Ai bei tempi erano il fortilizio antidivorzista, salvo ricorrere senza patemi d’anima alla corrente legislazione o alla liberalizzazione del costume in tema di matrimonio.
Reclamano leggi penali durissime, salvo compiacersi del fatto che gli autori della strage di Bologna, con otto ergastoli a testa, sono a piede libero da vent’anni.
Si ergono a paladini delle croci sulle vette montane, salvo imbastire un’economia da vip che sfida l’umana sopportazione oltre che la grazia di Dio.
E infine c’è lei, la Marchesa del Grillo, ovvero il capolavoro del sepolcro imbiancato:
io sono cristiana…
voi siete la nazione…
io sono io…
voi non siete un cazzo.