Lilli Pruna

Gentilissima Lilli Pruna
D. parlando di scuola vorremo portare alla tua attenzione il tema della valutazione. Uno degli imperativi della scuola pare sia valutare: tutti allo stesso modo, senza investire, e con intenti punitivi per le scuole che non rispondessero ai requisiti imposti dall’Invalsi. Che lettura dai di questa “esigenza” che pare ignorare la realtà?
R. Credo sia un’ottima cosa valutare gli esiti di un investimento importante come l’istruzione, ma bisogna ricordare in primo luogo che la valutazione è un mezzo e non un fine: deve infatti consentire di migliorare il sistema dell’istruzione, e questa è l’unica ragione per cui valga la pena costruire strumenti e procedure di valutazione. Valutare è difficile, perché occorre tenere conto di grandi differenze di partenza e di importanti fattori di disuguaglianza, che riguardano le singole persone (alunni e docenti), le istituzioni scolastiche, i contesti territoriali. Se si dimentica a che cosa serve la valutazione, e che cosa significa valutare, diventa solo una interferenza iniqua, una fonte di diffidenza e disaffezione, che non produce alcun vantaggio al sistema dell’istruzione, semmai procura qualche danno ulteriore.A me pare che in Italia si tenda sistematicamente a confondere la valutazione con il controllo (non solo nella scuola), perché prevale un atteggiamento conservatore e autoritario, ma anche perché non è ancora maturato un interesse effettivo a rafforzare, qualificare, ampliare il sistema pubblico di istruzione e innalzare il livello di istruzione della popolazione. E’ questo debole interesse per la qualità dell’istruzione e per la sua funzione essenziale in una democrazia che spiega il penoso fraintendimento tra la valutazione e il controllo, funzionale ad una giustificazione ex post di scelte economico-finanziarie che rispondono ad interessi e strategie che vanno in ben altra direzione. Non può non sorprendere, infatti, che dai risultati della valutazione non sia mai emerso –per fare qualche esempio – il problema degli investimenti pubblici insufficienti, della precarietà cronica degli insegnanti, della limitata possibilità di scelta dei percorsi scolastici superiori da parte degli studenti.

D. In Italia la popolazione “funzionalmente analfabeta” ha raggiunto la cifra allarmante del 67%. Questo dato racconta di una società fragile, facilmente manipolabile e indifesa. La scuola può essere considerata l’unica responsabile? Può essere lasciata sola ad affrontare l’emergenza?

R. Le quote elevate di analfabetismo funzionale, abbandoni scolastici, bassi titoli di studio, sono l’esito del deliberato indebolimento – se non proprio smantellamento – della scuola pubblica e del diritto allo studio, avviato da molti anni. Per produrre un quadro tanto disastroso e in controtendenza rispetto agli altri paesi avanzati ci sono voluti decenni di sistematico ridimensionamento del ruolo sociale fondamentale della scuola. La scuola è la vittima e non la causa di questa azione ostinata di riduzione di mezzi, risorse, autorevolezza, che ha impoverito l’intera società e non solo il sistema di istruzione. Se consideriamo la popolazione tra i 25 e i 64 anni, cioè un’ampia fascia di età in cui il percorso di istruzione è generalmente concluso, dobbiamo purtroppo osservare che nel 2012 il 40% delle persone che vivono nelle regioni del Nord Italia ha conseguito al massimo la licenza media, ma al Sud sale al 50% e in Sardegna supera addirittura il 53%. Tradotto in cifre significa che in Italia ci sono circa 15 milioni di persone adulte che hanno concluso il percorso formale di istruzione con la licenza media. Se a questi sommiamo coloro che nel corso degli ultimi decenni hanno conseguito un titolo secondario di qualità sempre più scarsa e coloro che sono usciti dalla scuola da molto tempo e non hanno più avuto occasione di formarsi e aggiornarsi, otteniamo un quadro desolante, con 25-30 milioni di cittadini e cittadine poco istruiti e poco attrezzati ad affrontare le difficoltà e cogliere le opportunità di una società complessa, ma in primo luogo ad esercitare i propri diritti di cittadinanza. E’ una situazione che imporrebbe un brusco cambiamento di rotta: l’interesse pubblico e le risorse andrebbero concentrate nella scuola, non come è adesso ma come dovrebbe diventare per essere al centro della società.

D. A Milano il sindaco Pisapia ha trovato il coraggio di tagliare i fondi alle scuole private . La priorità sono le scuole pubbliche , alla canna del gas ormai, una scelta condivisibile solo da chi opera nella scuola pubblica o che deve essere la strada da seguire?
R. E’ di questi giorni la notizia che la “legge di stabilità”, appena arrivata al Senato(per fortuna ancora emendabile), prevede 220 milioni di euro per le scuole paritarie mentre blocca anche per il 2014 gli stipendi del personale della scuola. E’ una situazione tipica del modello italiano, in cui il ridimensionamento dell’intervento pubblico è avvenuto non attraverso una vera e propria apertura al mercato ma con l’affidamento di servizi al privato in forma sovvenzionata(sistema di convenzioni nel caso della sanità, finanziamenti diretti nel caso della scuola paritaria): non un vero regime di mercato, dunque, ma un trasferimento al privato di competenze e risorse pubbliche, con qualche vantaggio ulteriore per i privati, come la riduzione del rischio di impresa e l’esonero dai controlli stringenti cui sono sottoposti i servizi pubblici. Questa cessione crescente di competenze pubbliche ai privati viene motivata con ragioni di bilancio, cioè di riduzione della spesa: lo Stato dichiara di risparmiare affidando spazi crescenti nell’istruzione e nella sanità ai privati. Il risparmio avviene principalmente a spese dei lavoratori e delle lavoratrici, che nel privato hanno condizioni contrattuali, retributive e organizzative nettamente peggiori. Allo stesso tempo, lo Stato continua a disinvestire nella scuola pubblica, sottraendole risorse e sottoponendola a continue riforme a costo zero, mentre garantisce finanziamenti non marginali alle scuole paritarie. Eppure la Costituzione è chiarissima: l’art. 33 stabilisce che “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.”

D. Sulla scuola vengono rovesciate emergenze educative, sociali , familiari. Gli insegnanti però sempre più spesso vengono visti come nemici, scansafatiche e responsabili unici dell’ insuccesso scolastico dei loro studenti. Se gli studenti non sanno rispondere ai quiz invalsi, noi andiamo a fare il corso per insegnanti bocciati, se hanno una cattiva condotta la responsabilità è degli insegnanti, se si fanno male in classe, la colpa è degli insegnanti. Se la colpa è sempre dei docenti quando diventeranno maturi e responsabili questi giovani e le famiglie che ruolo rivestono? È educativo tutto questo? O si tratta solo di uno specchietto per le allodole che serve a parare i colpi di una crisi criminale?
R. Credo che addebitare alla scuola gli insuccessi e i tanti problemi della condizione giovanile sia perfettamente funzionale alla strategia ormai chiara di smontare la scuola pubblica, dichiarandola incapace di svolgere adeguatamente il ruolo educativo che le viene affidato. Del resto, l’idea che prevale da tempo è che ciò che è pubblico non funziona e costa troppo, mentre il privato è sempre efficiente e conveniente. Lo dimostrerebbe il fatto – che fa ormai parte dell’immaginario collettivo – che nella scuola privata gli insegnanti non scioperano, gli alunni non perdono ore di lezione e c’è più disciplina (oltre che la carta igienica nei bagni). Anche la potente retorica della famiglia, considerata per eccellenza luogo d’amore e di cura e non palestra di grandi e profondi conflitti, gioca un ruolo rilevante nello scaricare sulla scuola l’intera responsabilità delle inquietudini, incertezze, debolezze, paure e intemperanze giovanili, che la scuola da sola non può sostenere. Vero è che negli anni recenti gli spazi di collaborazione tra scuola e famiglie sono stati progressivamente ridotti e svuotati di significato, e forse anche questo ha contributo a deresponsabilizzare le famiglie e lasciare la scuola da sola, con un compito impossibile.

D. Sei arresti , qualche giorno fa , in seguito allo scandalo delle“pillole del sapere” Ilaria ediast, l’imprenditrice al centro della vicenda dei prodotti audiovisivi per bambini che costavano mille euro ma il Miur comprava a 39mila, accusata di concorso in bancarotta. Ai domiciliari anche il direttore relazioni istituzionali di ediaste. Questa vicenda, grazie al lavoro di indagine di Report e alle numerosissime segnalazioni degli insegnanti, hanno svelato che le famigerate “Pillole del Sapere “ erano una truffa, si è conclusa così una vergognosa vicenda “ ultimo atto dell’ era Gelmini”, compiuto quando la signora già faceva le valigie. Quale meccanismo clientelare continua a spingere il Miur, a tagliare continuamente servizi essenziali alla sopravvivenza della scuola pubblica, la scuola della Repubblica, per foraggiare, invece, mangiatoie sì scandalose?
R. Devo tornare al rapporto tra Stato e mercato, tra interessi pubblici e privati. E’ un rapporto malato, la corruzione è la malattia, i favori personali e gli sprechi sono gli altri disturbi gravissimi. I casi sono numerosi, anche nell’ambito “povero” dell’istruzione, e quello citato nella domanda è solo l’ultimo. Nei decenni trascorsi la Sardegna ha ricevuto e speso – soprattutto sprecato – ingenti risorse pubbliche in grandiosi progetti per l’innovazione del sistema scolastico, uno fra tutti il Progetto Marte, 80 miliardi di lire in tre anni per realizzare “un sistema di apprendimento su rete tecno educativa”. L’intervento era “finalizzato alla realizzazione di infrastrutture del sistema scolastico regionale, con l’impiego di più moderni strumenti tecnologici soprattutto sul versante della didattica.” A che cosa sono serviti, effettivamente, quegli 80 miliardi di lire, al netto dei consulenti sempre pagati come fossero Nobel? Quanti altri progetti e soldi e consulenti hanno riguardato la scuola sarda, fino ai mesi scorsi, lasciandola sempre troppo povera e debole rispetto alle attese e alle spese? I meccanismi clientelari, le incompetenze e il disinteresse palese per le sorti della scuola non sono limitati al livello centrale (Ministero) ma si estendono a quello locale (Regioni), e non da oggi. L’idea che con truffe e imbrogli si possano sottrarre risorse persino al settore pubblico più povero, quella della scuola, non ha mai destato particolare scandalo.

Lilli Pruna

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